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Marketing

Quando la pubblicità diventa controproducente

Palazzo Ducale

Better”, dall’inglese “To bet” (scommettere) ma anche “better” inteso come “meglio”: nome perfetto per un’agenzia di scommesse. Se poi si tratta di farlo conoscere al grande pubblico, di fare un po’ di branding per un marchio ancora poco noto, non c’è niente come far comparire il logo in TV in sovraimpressione mentre va in onda uno degli eventi col più alto indice d’ascolti in Italia, cioè un gran premio motociclistico.

Il (nefasto) caso vuole, però, che poco tempo fa sia successo esattamente questo: preceduto da un sonoro “bing!” per destare l’attenzione dello spettatore, il logo di “Better” è effettivamente comparso in TV, ma il tutto soli 3 secondi dopo che il telecronista Guido Meda aveva invitato il pubblico a casa ad osservare un minuto di silenzio per la notizia, appena giunta in diretta, della morte in pista di Shoya Tomizawa, sfortunato motociclista giapponese. Immaginatevi la scena: silenzio di tomba (purtroppo, è il caso di dirlo), sangue ghiacciato, qualcuno che mentalmente recita una preghiera, le immagini di moto che scorrono davanti ad un pubblico atterrito e… (bing!) “BETTER” compare sui nostri schermi. Fossi il direttore marketing di quell’azienda, citerei il regista per danni e chiederei il rimborso all’emittente televisiva.

Di cosa stiamo parlando? Di pubblicità controproducente. Ci sono casi anche più famosi: in una recente partita dell’Italia di calcio, il nostro Cassano ha segnato un gol. Peccato che in diretta tv non l’abbia visto nessuno dei milioni di telespettatori, perché pochi istanti prima la regia aveva pensato bene di mandare in onda il fatidico “spot di 5 secondi, e poi torniamo!”. Questo mentre uno dei nostri si accingeva a battere un calcio d’angolo, situazione che normalmente dovrebbe mettere in allerta i registi perché 1 volta su 3 dopo un “corner” succede qualcosa: un gol, un’occasione da gol, un rigore… Non ricordo lo spot, ma per giorni è echeggiata sulle pagine dei quotidiani sportivi la vibrata lamentela degli appassionati.

Ebbene: secondo voi l’azienda che ha pagato quello spot pubblicitario, ne avrà guadagnato in termini d’immagine o no? Quanti insulti dei tifosi saranno virtualmente arrivati all’indirizzo dell’azienda che con la sua pubblicità ha incolpevolmente oscurato la diretta di un gol della Nazionale? Nel rendere potenzialmente controproducente un messaggio, la tempistica fa la sua parte non solo in termini di opportunità (quando mandare in onda il messaggio) ma di ripetitività. A tal proposito, cito testualmente il post di un internauta romano, esasperato dalla ripetitività di un messaggio radiofonico evidentemente martellante fino alla nausea: “…Gli stessi che pubblicizzano non si rendono conto che troppa pubblicità è come nessuna pubblicità, e che pubblicità fastidiosa è pubblicità controproducente”.

In effetti, c’è gente che per ripicca verso lo spot ossessionante finisce per comprare il prodotto della concorrenza, come scrive un lettore su “Toluna”: “…ho notato che le pubblicità che io reputo più brutte e più noiose sono quelle delle acque e, di conseguenza, ho deciso di non comprare per nessunissima ragione l’acqua Brio Blu, Rocchetta e Uliveto. Le loro pubblicità sono martellanti e veramente brutte”. Ovviamente ci dissociamo da questa opinione… Esempi di pubblicità “boomerang” sono in realtà sotto gli occhi di tutti anche nel nostro vivere quotidiano. Recentemente a Milano sentivo per strada un paio di milanesi di quelli “veri” che in meneghino stretto maledicevano un pannello pubblicitario colpevole di coprire per intero un edificio storico (non parlo milanese, ma ricordo bene che la conversazione finiva con qualcosa di molto simile a “ma va a da’ via….”).

La testata “Th e Art Newspaper” ha persino scritto al Ministero dei Beni Culturali italiani per protestare vibratamente contro una “Venezia deturpata in maniera grottesca” dai pannelli pubblicitari che, a dire delle autorità locali, aiuterebbero in realtà a finanziare il restauro degli edifici interamente coperti dagli stessi pannelli (lettera sottoscritta anche dai direttori del MOMA di New York, dal British Museum di Londra e da intellettuali di mezzo mondo).

Sin qui si è parlato di comunicazione infelice per l’inopportunità della tempistica o della location. Altre volte, invece, la pubblicità può essere una zappa sui piedi a causa di altri fattori: la scelta del testimonial sbagliato, per esempio. Dopo che il golfista Tiger Woods si è reso protagonista di avventure extraconiugali riprese dai media di tutto il mondo, esperti di comunicazione hanno stimato in diverse decine di milioni di dollari il danno procurato ai suoi sponsor (Nike, Gillette, ed altri ancora). Che non a caso hanno in gran parte annullato il contratto poco dopo.

Storie analoghe per il cestista Kobe Bryant (stella di basket dei Los Angeles Lakers, fedifrago, scaricato dagli sponsor), per la modella Kate Moss (cocainomane, che ha avuto il benservito da H&M e Chanel), ed altri ancora. Per dirla con Ettore Livini di “Repubblica”, Calimero non avrebbe fatto questi scherzi.

Casi opposti, stesso risultato: il testimonial nuoce al prodotto perché è (o diviene) più celebre del prodotto stesso. Il consumatore si ricorda della star del cinema, del celebrato sportivo, ma non di cosa fosse testimonial. Per esempio: quanti di voi si ricordano la marca di orologi al polso di Nicole Kidman? E il profumo che inebria Monica Bellucci? (risposte: Omega e Dolce & Gabbana).

Persino Belen Rodriguez rischia di creare lo stesso effetto: come scrive Nino Materi su “il Giornale”, i consumatori restano concentrati sulle sue curve (come dare loro torto…), e alla fine si ricordano l’azienda (TIM) ma non il prodotto, in questo caso la tariffa telefonica promossa: che offerta è? Che vantaggi comporta? Boh!

I testimonial, inoltre, possono nuocere al prodotto anche a causa della sovraesposizione mediatica, per cui un testimonial diventa letteralmente insopportabile non per sue specifiche colpe ma a causa di quella che gli inglesi chiamano “overfamiliarity”. Piccola ma facile profezia a tal proposito: secondo me TIM presto si stuferà della già citata Belen Rodriguez (poi verificatasi, ndr), come – citiamola per par condicio – Vodafone s’è stufata a suo tempo di Megan Gale.

In certi casi, infine, l’inefficacia del messaggio che si tramuta in danno per l’advertiser è generata non dalle persone, non dai luoghi, non dalla tempistica, ma… dalle regole! Il caso più classico è quello delle pubblicità dei farmaci, che per legge devono sempre avere richiami al “leggere attentamente le avvertenze”, al “tenere fuori dalla portata dei bambini”, e ad altre indicazioni sulla data di scadenza del prodotto, sul parere del medico, etc…. Il problema è che questi “richiami” sono talmente tanti che l’inserzionista paga per 30 secondi di spot, un terzo dei quali si perde in questo bla bla. Così per anni s’è consumata l’abitudine di raddoppiare artificialmente la velocità dello speaker, al punto di rendere impossibile capire cosa stesse dicendo: controproducente per chi paga, ma anche per il consumatore, ovvero il malato, che nel dubbio di non aver ben compreso le avvertenze, ignora lo spot tv/radio e si affi da al consiglio del farmacista. Tutto risolto (o quasi) nel Luglio 2007, quando per decreto del Ministero della Salute è stata sancita l’obbligatorietà di pronunciare le avvertenze alla stessa velocità del resto del messaggio.

Merita invece una parentesi un caso che è ormai oggetto di studio sui banchi delle scuole di comunicazione, ovvero la collaborazione tra il gruppo Benetton ed il fotografo Oliviero Toscani. Le foto di un prete e una suora che si baciano, del malato terminale di AIDS o della fotomodella anoressica, immagini volutamente choccanti hanno fatto il giro del mondo, associate al marchio Benetton. Per molti, un danno d’immagine. Secondo me, un falso caso di pubblicità controproducente ed anzi la semplice messa in pratica (ancorché opinabile nelle modalità) della celebre frase di Oscar Wilde che suona più o meno così: “Bene o male, l’importante è che se ne parli”.

Quali sono i rimedi per una pubblicità che diventa più un danno che un beneficio? Nei casi dei testimonial, gli avvocati sono ormai usi ad inserire le “bad boy clauses”, cioè clausole specifiche che tutelano l’azienda in caso di cattivo comportamento, ma in realtà sono solo dei deterrenti: difficile infatti rimediare ad un danno d’immagine una volta che s’è verificato. Oppure se si vuole evitare rischi legati all’integrità dell’immagine del testimonial, ci sono imprenditori che agiscono all’insegna del vecchio adagio “se vuoi una cosa fatta bene, falla tu”, ed eccoli pronti a mettere la propria faccia, da Ennio Doris (Banca Mediolanum) a Giovanni Rana (tortellini), da Francesco Amadori (polli) ad altri ancora, tutti testimonial di sé stessi.

In tutti gli altri casi, una soluzione standard efficace non esiste: in pochi campi come in quello della comunicazione è fondamentale saper pianificare con cura ed attenzione ogni dettaglio, ma una volta che è partita la giostra, non la si può più fermare.

di Leonardo Marabini Direttore Marketing Pianificazione e Sviluppo del Kilometro Rosso