Riparte lo sport: quando parlare un’altra lingua può fare la differenza

Lo sport sta tornando. Dopo mesi senza campionati, le leghe sportive di tutto il mondo hanno stabilito le modalità per la ripresa. Tutte con un fattor comune: niente pubblico, spalti vuoti e le voci di atleti e allenatori a risuonare. Per questo motivo, il palcoscenico che ospiterà le competizioni sportive per i prossimi mesi permetterà di apprezzare alcuni retroscena normalmente sommersi dal boato dei tifosi. Conversazioni e dialoghi che compagni e avversari si scambiano durante la gara, spesso con conseguenze importanti sull’esito finale, come insegna la famosa testata durante la finale di Berlino 2006.
Babbel, l’app che porta le tue competenze linguistiche a un livello superior, invita a riflettere in merito alle circostanze in cui il code-switching, ovvero l’abilità di passare rapidamente da una lingua all’altra, può avere un ruolo strategico nel calcio e nello sport.
“Provocare” gli avversari
Impossibile non ricordare la notte di Berlino, il 9 luglio 2006: l’Italia è campione del mondo per la quarta volta. Una gioia irripetibile arrivata anche in virtù del poliglottismo di Zidane. Dopo gli anni giocati alla Juve il francese infatti non aveva problemi con l’italiano; questo lo portò, suo malgrado, a capire perfettamente la provocazione di Materazzi, lasciando la Francia senza capitano e la Coppa agli azzurri.
In tema di provocazioni il fighter della UFC Conor McGrecor non è secondo a nessuno: ne sa qualcosa Khabib Nurmagomedov, che nella conferenza stampa di presentazione del loro attesissimo scontro del 2018 si vide rivolgere dal nativo di Dublino alcune provocazioni direttamente in irlandese.
La supremazia psicologica può avere spesso un ruolo determinante nello sport: dagli street courts di South Beach al parquet del Madison Square Garden le regole nel basket sono le stesse: il rispetto va guadagnato, anche rispondendo alle provocazioni verbali, il cosiddetto trash talking. Ne sa qualcosa l’ala degli Oklahoma City Thunder Danilo Gallinari, che sul parquet di New York ha mosso più di qualche passo. Lo stesso Danilo ha recentemente raccontato di come appena arrivato in NBA Kobe Bryant, leggenda di Los Angeles scomparsa in un incidente aereo lo scorso gennaio, fosse solito provocare Danilo in italiano, lingua che Kobe aveva imparato quando da piccolo seguiva in Italia il padre giocatore. Una manifestazione di superiorità linguistica che supportava quella cestistica, per far sentire ancor più piccolo l’avversario.
Comunicare una strategia
Bryant però faceva del code-switching una risorsa a tutto tondo: nella cavalcata al quarto e quinto titolo della sua carriera si rivolgeva spesso ai suoi giovani compagni Pau Gasol e Sasha Vujačić rispettivamente in spagnolo, lingua madre del catalano, e in italiano, che Sasha conosceva dopo i trascorsi in Serie A. Quei rapidi messaggi in campo, così come i confronti nei time out erano l’ennesima dimostrazione di leadership del 24 gialloviola.
Anche nel calcio sono molte le situazioni in cui conoscere più lingue può diventare fondamentale. Lo insegna anche Mourinho: l’allenatore portoghese riuscì subito a plasmare la sua immagine mediatica con la famosa frase “io non sono un pirla”, sfoderata nella sua prima conferenza stampa neroazzurra. Una dichiarazione concisa e così efficace da non poter essere frutto del caso – come ha rivelato lo stesso manager anni dopo. Una mossa che catalizzò da subito l’attenzione mediatica sullo special one, una strategia che spesso applicherà per guidare l’Inter al triplete. Oltre che con i giornalisti, nel corso della carriera Mourinho ha spesso sfruttato la conoscenza di quattro diverse lingue per rivolgersi ai giocatori di varia nazionalità, assicurandosi la massima chiarezza nelle comunicazioni tecniche; una capacità condivisa con altri colleghi del calibro di Arsène Wenger e Pep Guardiola.
La necessità di evitare fraintendimenti è invece sicuramente un tema importante per la nazionale del Belgio: in un paese con tre lingue ufficiali – francese, tedesco e olandese – la soluzione è quella di parlare in inglese, anche per evitare malintesi politici.
In ambito motoristico invece, i tifosi della rossa ricorderanno sicuramente gli anni in cui lo spagnolo Alonso parlava in italiano durante i team radio, così da non far capire alle altre squadre le strategie del proprio muretto. Un’idea simile a quella del quarterback NFL Payton Manning, che ricorreva al Gaelico, antica forma di irlandese, per guidare l’attacco dei suoi senza dare riferimenti agli avversari.
Gestire le comunicazioni pubbliche
Come in tutti gli ambiti, anche nello sport saper gestire l’immagine pubblica è diventato sempre più importante. Può stupire come nel wrestling, John Cena, il volto della WWE degli ultimi 20 anni, fosse solito studiare quotidianamente il mandarino per favorire la diffusione della federazione in Cina. Alcuni sportivi sono tornati sui libri con un obiettivo ben preciso: la tennista Serena Williams ha infatti rivelato di aver studiato il francese e l’italiano anche per poter rispondere alle domande dei giornalisti e per omaggiare il pubblico locale. Anche il re del tennis, Roger Federer, ha spesso sottolineato come parlare fluentemente inglese, francese e tedesco lo abbia aiutato a stabilire una connessione emotiva con il pubblico, oltre che a gestire con disinvoltura le relazioni con la stampa. L’esempio più evidente di quanto parlare la lingua dei propri tifosi sia importante lo ha dato il francese Charles Leclerc. Recentemente l’astro nascente della rossa ha partecipato ad uno dei talk più famosi della TV italiana dove ha rafforzato ancor di più il legame con i suoi fan, sfoggiando un perfetto italiano.