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L’approdo in Italia dei primi yachts. Il mito dei cantieri Baglietto e Pisa

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La storia della nautica a motore fa tappa a Varazze e a Pisa per raccontare la “nascita” delle grosse imbarcazioni da diporto Made in Italy

Se, come si è visto, i Cantieri Riva, agli esordi della nautica da diporto italiana, hanno rappresentato la migliore interpretazione dei “runabout”, veloci motoscafi per bordeggio sotto costa e per gli sport nautici, fra tutti lo sci nautico che proprio in quegli anni furoreggiava lungo le coste della Florida, un discorso particolare meritano il cantiere Baglietto di Varazze e i Cantieri di Pisa, relativamente alle grosse imbarcazioni da diporto, gli “yachts”, impropriamente definiti “cabinati” intendendo per essi quelle imbarcazioni destinate alla crociera e quindi alla prolungata vita di bordo.

Il cantiere Baglietto, di Varazze, in provincia di Savona, fu fondato nel 1854 da Pietro Baglietto, un giovanissimo mastro d’ascia che, rifi utando un lavoro stabile presso i cantieri navali di Sestri Ponente, preferì sfi dare la sorte fabbricando, per quei cantieri, scialuppe di salvataggio. Mutarono poi i tempi e la cantieristica commerciale locale progressivamente si inaridì e allora Pietro, che intanto aveva realizzato un cantiere di tutto rispetto, iniziò a dedicarsi alle imbarcazioni da diporto, a remi e a vela. Siamo sul fi nire dell’Ottocento e due importanti commesse “nobilitano” il cantiere varazzino e sono una yole, commissionatagli per Papa Pio IX che la usò nella residenza estiva di Castelgandolfo e un battello a remi, con la polena a prua raffi gurante il leone papale commissionatogli dalla città di Varazze che lo donò a Papa Leone XIII. L’avvento del motore a scoppio non lo trovò impreparato e nel 1911 il Maestro Giacomo Puccini gli commissionò uno dei primi “battelli automobili”, come venivano definiti allora i motoscafi , da usare sul lago di Massaciuccoli. Con molta aderenza alla storia e poca fantasia, il battello automobile, al varo, venne battezzato con il nome di “Cho Cho San” alias “madama Butterfly”! Sono dei primi del Novecento il “Giuseppina”, che con le sue 33 tonnellate di stazza, fu il più grande yacht a motore mai costruito in Italia sino ad allora. Di lì a poco, il primo confl itto mondiale assorbirà tutta la produzione del cantiere che, con la morte di Pietro avvenuta nel 1911, era gestito dai figli, ed in particolare da Vincenzo Vittorio, educato in Inghilterra e laureato in ingegneria ed architettura, che si dedicò allo studio di veloci imbarcazioni militari, i famosi MAS, motoscafi anti sommergibili, protagonisti della battaglia sui mari, epica la “beff a di Buccari” dove, nella notte tra il dieci e l’undici febbraio del 1918, una fl ottiglia di Mas forzò le difese austriache attaccando la fl otta nemica nel porto di Bakar, a sudest di Fiume. Sul Mas 96, al comando del pluridecorato Tenente di Vascello Luigi Rizzo, vi era imbarcato anche il poeta Gabriele D’Annunzio. La preparazione tecnica di Vincenzo Vittorio e la passione per l’aeronautica del fratello Stefano, eroe della prima guerra mondiale e morto nel tentativo di conquistare un record di velocità aerea, caratterizzarono la successiva tecnica di costruzione del cantiere che sarà sempre improntata alla ricerca della velocità. Tuttavia, la esclusiva vocazione diportistica del cantiere si manifesterà in tutto il suo vigore nel secondo dopoguerra, quando il boom economico, che sul fi nire degli Anni Cinquanta pervase il mondo occidentale, consentirà non solo all’alta ma anche alla media borghesia di avvicinarsi al diporto nautico. Sono di questi anni i cabinati “Elba”, yacht di poco più di undici metri, il “Capri” di quattordici metri e poi l’“Ischia” ed il “Super Ischia” di sedici metri. Seguiranno il “Minorca” di venti ed il “Maiorca” di ventidue metri. La serie “M”, di impronta decisamente militareggiante e costruzione in compensato in luogo del fasciame, occuperà la successiva produzione ma senza il fascino di quelle “barche” che videro, tra gli aff ezionati, l’Aga Kan, Mike Buongiorno, Virna Lisi e molte altre star.

Se Baglietto, per così dire, dedicò le proprie barche identifi candole con i nomi delle splendide isole dei nostri arcipelaghi, mete indiscusse del jet-set dell’epoca, un’altra fabbrica altrettanto prestigiosa, di successo e molto apprezzata, i Cantieri di Pisa, dedicarono le proprie alle stelle. E furono gli “Jupiter”e i “Polaris” , di undici e tredici metri, entrambi anche nelle versioni “super”, dotate cioè di fl y-bridge, i “Saturno” e “Super Saturno” da diciassette metri, i “Kitalpha” nelle due versioni di quattordici e quindici metri, l’“Atlas” e il “Pegasus”, rispettivamente di diciotto e ventun metri ed infi ne “Akir”, un nome ed un progetto dell’architetto Pier Luigi Spadolini, indimenticabile nella storia del diporto. Anche i Cantieri di Pisa hanno origini non meno blasonate del cantiere Baglietto e di tanti altri che fecero la storia della nautica da diporto, in Italia ed all’estero. E’ il 1945 quando due dipendenti dei prestigiosi cantieri Picchiotti, Gino Bini e Antonio Sostegni, decisero di rimettere in sesto un bombardato cantiere di Limite sull’Arno dove era fi orente una importante attività di cantieristica navale risalente, pare, sino ai tempi degli etruschi. Sulle prime, come è accaduto per la maggior parte dei cantieri, la fecero da padrone le commesse militari che, a cavallo degli anni cinquanta, impegnarono il cantiere nella costruzione di motovedette per la Guardia di Finanza. Fu nel 1956 che i soci decisero di ampliare la produzione e, conseguentemente, di trasferire lo stabilimento nell’attuale darsena pisana ed il cantiere acquisì il nome di “Cantiere Navale Italiano di Porta a Mare” che, nel tempo, si trasformerà in “Cantieri di Pisa”. Sulle prime furono barche a vela, il “Tyrsa” di venti metri e poi “Kerilos” di ventiquattro metri e poi ancora “Kalea” e “Symphony”, un ketch di 17 metri che ebbe il privilegio di essere esposto, in una vasca d’acqua appositamente predisposta, alla fi era campionaria di Milano del 1960. Ma è con i cabinati a motore che i Cantieri di Pisa conquistano il mondo della nautica. All’inizio con medi cabinati quali gli “Jupiter” ed i “Polaris”, che andavano a iscriversi nello stesso segmento di clientela, propria degli omologhi Elba ed Ischia di Baglietto, e poi ancora con i “Saturno” e “Atlas” che andavano a rivaleggiare con i “Minorca” ad i “Maiorca” sempre di Baglietto come con le “Paraggine” dei Cantieri di Chiavari che pure concorsero all’aff ermazione della cantieristica italiana nell’ambito delle imbarcazioni da diporto. Un discorso particolare merita il “Kitalpha” realizzato in due dimensioni di quattordici e quindici metri che ricalcava lo stile americano dei “fi sherman”, imbarcazioni destinate elettivamente alla pesca d’altura ma che in Italia ebbero particolare successo più come yacht croceristici che come imbarcazioni sportive dove i brand d’Oltre oceano l’hanno sempre fatta da padroni, disturbati solo marginalmente da un piccolo ma agguerrito cantiere livornese, il Cantiere Catarsi, che tra gli anni Settanta e Ottanta mise in produzione la fortunata serie di “Calafuria” , fi sherman dai nove ai quattordici metri che ottennero molto successo tra gli anglers nostrani. Ma è con il 1973 che i Cantieri di Pisa sembrano rilevare il “testimone” e con esso l’onore e l’onere di rappresentare nel mondo il “Made in Italy” della nautica da diporto. Dal felice incontro con l’architetto Pier Luigi Spadolini nasceva “Akir”, un importante motoryacht, inizialmente di circa 17 metri poi rapidamente in crescita sino a raggiungere e superare i quaranta metri. L’“Akir”, dalla linea inconfondibile, si avvia, negli anni Ottanta, a divenire un’icona della nautica da diporto sbaragliando ogni altro concorrente e divenendo l’oggetto più ambito dei croceristi non solo italiani ma dell’intero mondo diportistico, con la sola eccezione per i cosiddetti super mega yacht, destinati a una clientela tutt’aff atto diff erente sia per possibilità economiche che per esigenze correlate al tipo di crociera quale quella oceanica. La felice intuizione progettuale e commerciale trovò, come sempre, molti imitatori ma nessuno, se non il tempo e per esso le mutate abitudini del popolo dei naviganti, fu in grado di sconfiggere il mito.

a cura di Roberto Magri