Architettura, la filosofia dell’ecosostenibilita’
Dorit Mizrahi e Oliviero Godi, coppia di architetti nella vita e nel lavoro: nei loro progetti c’è creatività, innovazione, ma anche una grande attenzione all’impatto ambientale. Il caso Greentainer
Lei israeliana, laureata al Politecnico di Milano. Lui italiano, con un master in architettura alla Columbia University di New York. Insieme condividono la passione per l’architettura, la loro professione. Dorit Mizrahi e Oliviero Godi sono una coppia a tutti gli effetti, nella vita come nel lavoro; insieme hanno lavorato negli Stati Uniti, in Inghilterra, Spagna, Israele e Giappone e hanno fondato a Bergamo lo studio Exposure Architects. Per loro ogni progetto diventa un viaggio verso culture e mondi vicini e lontani, un ponte per conoscere aspetti nuovi e diversi dell’architettura del mondo.
Mi sembra di capire che siete entrambi due nomadi dell’architettura. Avete viaggiato, continuate a lavorare all’estero. Alla luce di queste molteplici esperienze, come definireste la vostra architettura, il vostro lavoro?
Il nostro è un lavoro di studio e di analisi dei programmi che compongono un progetto. Faccio un esempio: il nostro primo progetto è stato l’Octospider, una mensa realizzata in Thailandia. Una volta che il cliente ci ha indicato quali erano le sue esigenze, la mensa appunto, abbiamo preso quel concetto, quell’idea e l’abbiamo analizzata, dalla cucina alla parte in cui gli operai si sarebbero dovuti sedere. Abbiamo manipolato i programmi e creato eventi nuovi. Nel caso dell’Octospider lo abbiamo sollevato 8 metri da terra portandolo ad una quota che permette di mantenere un contatto diretto con la natura esterna. Costruendo dei pontili che escono al di fuori dell’acqua abbiamo portato la gente e i lavoratori a escludersi, almeno nella mezz’ora di pausa, dal contesto lavorativo immergendosi in un mondo idilliaco. Lo stesso è successo per lo Zig Zag, altra struttura che abbiamo progettato in Thailandia. In quel caso l’edificio avrebbe dovuto ospitare lavoratori e lavoratrici dediti alla cucitura e la struttura da progettare doveva rompere la sensazione alienante data dal lavoro; abbiamo disegnato due chiostri chiusi all’esterno ma prospettanti ciascuno su un giardino tropicale, così la forma saettante della folly, stempera l’altrimenti eccessiva serietà del luogo, per suggerire il veloce movimento – zig, zag, appunto – della macchina da cucire.
Da quali influenze nasce il vostro modo di progettare?
Entrambi abbiamo girato il mondo. Dorit si è laureata al Politecnico di Milano, insieme abbiamo studiato negli Stati Uniti, alla Columbia University dove io mi sono laureato. Abbiamo lavorato a New York, Londra, Giappone, Israele, insomma una formazione acquisita soprattutto su diversi fronti.
Fra quelle conosciute, esiste un’architettura più bella?
Non penso. Ogni momento e ogni luogo ha avuto la sua importanza, partendo dall’Inghilterra fino ad arrivare a New York dove abbiamo imparato molto per quanto riguarda gli interni. Il Giappone e i giapponesi ci hanno fatto scoprire un mondo diverso e un nuovo modo di affrontare i problemi, lo stesso in Spagna e in Israele.
In Italia esistono, secondo voi, le condizioni per un’architettura nuova, creativa e capace di competere con l’innovazione mondiale?
Gli italiani all’estero sono stimati moltissimo per le loro idee innovative, per il design, per il fashion. Al contrario, in Italia ci ritroviamo spesso con architetti stranieri e questo ha influito anche nella nostra storia: conosciuti oltre confine e meno a casa nostra. Addirittura, in un libro inglese che raccoglie i più importanti architetti dal 2000 al 2008, ci sono 4 italiani tra cui noi. Tutto questo ha del paradossale. Nonostante i successi all’estero, in Italia si fa fatica ad emergere, anche se il Sole 24 Ore ci ha messo tra i 10 migliori giovani architetti in Italia e due anni fa abbiamo vinto la menzione d’onore per l’architettura italiana, alla Triennale di Milano.
Recentemente avete presentato il Greentainer, realizzato per Radici Group, la sostenibilità che entra nell’edilizia. Di cosa si tratta?
Il Greentainer è solo una delle inziative “ecosostenibili” che ci ha visto in prima fila. Prima del Greentainer abbiamo progettato la Casa Concreta, una costruzione prefabbricata, semplicissima fatta di lastre in cemento armato unite dai piani di calpestato e dal solaio. Il Greentainer invece è nato dall’esigenza di Radici di avere uno spazio ricreativo per i dipendenti di una delle loro aziende: nasce da uno studio approfondito delle problematiche ambientali, siamo partiti recuperando un container standard da 40 piedi (12 metri), nella versione HighCube (per avere un’altezza interna di 2,7 metri) che era destinato, dopo 5 anni di vita, ad essere rottamato. Abbiamo pensto a qualcosa di trasferibile, adattabile e soprattutto ecosostenibile.
Si parla spesso di architettura ecosostenibile. Non c’è il rischio che diventi anche questa una moda e si perda il vero lato ecologico della questione?
Sicuramente. Ormai è diventata una moda che tutti vogliono cavalcare perchè , per molti, rappresenta una scorciatoia per ottenere delle commesse. È un rischio e soprattutto una realtà. Molti parlano di eco sostenibilità solo per riempirsi la bocca ma di strutture che rispettino realmente i canoni non ce ne sono molte. Per essere tale è necessario seguire un protocollo preciso. Posso riempire un grattacielo di piante ma quanta acqua mi serve per bagnarle? Ai tempi dei miei studi in Giappone, attorno al 1995, i giapponesi avevano creato un vero e proprio reparto di eco sostenibilità dove studiavano quali erano le erbe migliori da mettere lungo i canali per ridurre la quantità di acqua da usare per tenerle in vita. Sono esempi di ricerca da fare. Oggi purtroppo c’è troppa approssimazione.
Esiste una eco sostenibilità ideale?
Un edificio, una costruzione deve essere ecosostenibile dal punto di vista architettonico ma soprattutto sociale, deve costare poco, tenere conto dei materiali a disposizione e delle condizioni ambientali. Chi lo progetta deve essere in grado di trovare soluzioni efficaci, efficienti ed economiche. In tutti gli edifici che costruiamo teniamo conto di queste componenti. Ultimo in ordine di tempo un edificio privato in un parco pubblico che abbiamo progettato a Tel Aviv.
Dovendo scegliere tra i progetti che avete realizzato, quale ha maggior significato per voi e perchè?
Il cuore ci lega al nostro primo progetto, l’Octospider, nel 2000. Dietro alla sua realizzazione c’è stato uno studio approfondito sul contesto, l’ambiente e su chi effettivamente lo avrebbe utilizzato. Ad esempio, gli operai che lavorano nell’azienda non hanno l’aria condizionata quindi anche dove mangiano non doveva esserci. Abbiamo agito di conseguenza. L’edificio è stato alzato in modo tale che i monsoni potessero attraversare l’edificio portando aria, inoltre abbiamo fatto mettere delle piante che fioriscono dal lato dove c’è il monsone che porta il vento.
Massimiliano Fuksas, importante punto di riferimento dell’architettura internazionale ha parlato della città ideale come “luogo senza i luoghi della disperazione”. Secondo Oliviero Godi come potrebbe essere la città ideale?
La città ideale è fatta di piccoli passi. Non si possono più fondare città nuove ma è necessario agire sulle città in cui viviamo oggi. Dal punto di vista architettonico si tratta di avere la capacità di inserire elementi nuovi senza paure mentre alcune amministrazioni tendono a tirare molti freni, non rischiano e non fanno nulla. Al contrario di quanto accade, ad esempio, a Parigi dove affiancano strutture nuove e diverse in contesti tradizionali. Agendo sul fronte sociale invece sarebbe necessario far rivivere le città con negozi, bar aperti fino a tardi, facendo così tornare la gente a popolare le strade, evitare le speculazioni edilizie e pensare più ai cittadini. Deve cambiare l’atteggiamento soprattutto pubblico nei confronti dell’architettura. Forse è colpa anche di noi architetti che per anni abbiamo utilizzato linguaggi troppo complicati e complessi e quindi la gente è caduta in mano a speculatori edilizi.
Come stanno crescendo i giovani architetti?
Come studio, abbiamo preso diversi ragazzi per lo stage universitario. Ci vengono mandati dal Politecnico per fare una serie di ore di tirocinio. Da una parte ci sono i ragazzi che hanno una certa iniziativa e che indipendentemente da quanto succede al Politecnico viaggiano all’estero e manifestano una cerca curiosità verso quanto scoprono e conoscono. Sono proprio questi ragazzi che, una volta tornati in Italia, portano idee e iniziative nuove. Ma c’è bisogno di una spinta da parte del mondo accademico. Altri ragazzi invece arrivano da noi senza idee, non sanno pensare perchè così gli è stato insegnato nel loro percorso scolastico.
Secondo due architetti di fama mondiale come voi, quali caratteristiche dovrebbe avere una persona sul luogo di lavoro?
Il fattore fondamentale è che colui che ti chiede il lavoro sia un illuminato, una persona consapevole del tipo di progetto da fare e soprattutto del fatto che se vuole raccogliere risultati positivi e più produttività deve fare i lavori in un certo modo. Se gli operai, i dipendenti sono felici e si trovano meglio nel loro ambiente, lavorano meglio.
testo di Laura Di Teodoro
Citazione L'architettura è un fatto d'arte, un fenomeno chesuscita emozione, al di fuori dei problemi di costruzione, al di là di essi. La costruzione è per tener su: l' Architettura è per commuovere Le CorbusierLink utili www.exposurearchitects.com