Clonati e poco aperti alle differenze. Sono i nostri cda
Una ricerca dell’Osservatorio sul diversity management della Sda Bocconi, in collaborazione con Pwa Milano, evidenzia come la scelta dei membri dei board avvenga secondo uno schema che cerca sempre le stesse figure e snobba la diversità, anche di genere
È uomo (94% dei casi), laureato, per lavoro ha cambiato mediamente due città prima di essere nominato e, nel 45% dei casi, anche tre aziende. Ha capacità di networking che lo rendono visibile nei circuiti di relazioni ‘che contano’, sia nel profit che nel non profit.
È l’identikit dei membri dei cda delle quotate italiane, secondo i primi risultati di una ricerca condotta dall’Osservatorio sul diversity management della Sda Bocconi su un campione di 300 curricula di consiglieri di società quotate alla borsa italiana, nell’ambito del progetto “Ready for board women” promosso dalla Pwa Milano (Professional Women’s Association). I dati, presentati oggi alla Bocconi, hanno messo in evidenza che, se da un lato ciò che conta per essere arruolati nei cda sembrano essere caratteristiche basate concretamente sul merito, tuttavia tali caratteristiche non fanno ! che perpetuare un sistema di selezione che privilegia un solo modello di percorso di carriera, tradizionalmente ‘maschile’, poco aperto alla diversità di profili e competenze, quindi generatore di board l’uno il clone dell’altro. I consiglieri, dunque, cercano e scelgono solo chi è già come loro.
L’identikit stilato dalla ricerca ha l’obiettivo di mappare le competenze dei membri dei board attraverso i loro profili per poi metterli a confronto con quelli delle donne potenzialmente candidabili, selezionate da un pool di head hunter per il progetto “Ready for board women”, progetto che intende promuovere la presenza delle donne nei cda. Attraverso il confronto dei profili di chi è già membro (uomo o donna) e delle donne “Ready for” emergono aspetti interessanti.
Dall’analisi dei cv dei membri dei board si evidenzia che le caratteristiche che più influiscono sulla possibilità di essere scelti sono un titolo di studio economico/finanziario, l’età anagrafica alla nomina e la presenza di un titolo post-graduate (sebbene non tutti lo possiedano). Inoltre, fondamentale, è l’aver avuto esperienze lavorative in diverse città o paesi e in diverse aziende e l’appartenere a una rete di relazioni professionali e non profit: il 45% del campione dei board member ha cambiato tre aziende prima della nomina, il 30% dopo la nomina a consigliere ha ricevuto altre cariche in cda, il 20% è stato nominato in un’azienda di famiglia e il 10%, prima della nomina, è stato membro di un ente non profit.
L’analisi dei curricula di donne ready for evidenzia un sostanziale allineamento con i profili dei membri dei cda del campione, pur con alcune differenze. Sono mediamente più giovani (il 70% di loro è nato dopo il 1960), mostrano una minore mobilità, soprattutto interaziendale (hanno comunque cambiato in media due aziende e due città e fatto uno spostamento all’estero) e il 65% di loro ha un incarico in enti non profit. Inoltre il livello di istruzione delle ready for è mediamente più alto (il 42% di queste donne ha un titolo post-graduate)poiché è più diffuso l’investimento nella formazione.
Ma come leggere questi dati? “L’analisi dei profili dei board member”, commentano Simona Cuomo e Adele Mapelli, coordinatrici dell’Osservatorio, “evidenzia che le dinamiche di inclusione nei cda sono caratterizzate da una forma di clonazione: si recluta chi è già simile, ossia ha competenze ed esperienze simili a quelle già presenti nel cda”. Ciò significa che, non solo le donne sono poche nei board, ma vengono reclutate se hanno caratteristiche più simili a quelle degli uomini. Uno schema ‘maschile’ di scelta che ha diversi aspetti negativi. Innanzitutto, è più limitante per le donne, laddove per esempio punti molto sulle esperienze di mobilità e sul networking, aree tradizionalmente meno sviluppate nelle carriere femminili. Ma soprattutto, crea gruppi molto omogenei all’interno dei cda, “gruppi che”, aggiunge Martina Raffaglio de! l team di ricerca dell’Osservatorio, “proprio a causa della loro poca eterogeneità tendono a produrre meccanismi di groupthink, cioè di omologazione al pensiero degli altri membri del team, che quando si affrontano compiti complessi e sfidanti, può diventare un limite. Una pluralità di competenze ed esperienze potrebbe invece aumentare la qualità e l’efficacia dei processi di decisione dei board”.
La scarsa presenza delle donne nei cda, quindi, non deve essere affrontata solo dal punto di vista strettamente numerico. Le quote rosa, delle quali spesso si discute, non sono di per se stesse la soluzione. Simona Cuomo: “Bisogna spostare il dibattito dalla quantità delle presenze alla qualità dei meccanismi di scelta. L’attuale modello di cooptazione cerca di default competenze legate alla finanza, alla contabilità, ma sono solo queste le competenze che servono a garantire l’efficacia di un funzionamento dei cda? Se il pool di talenti nel quale cercare i futuri consiglieri si aprisse alla diversità comprendendo profili di competenze orientati al marketing, alla comunicazione, alle risorse umane, l’organizzazione, lo sviluppo strategico (settori nei quali le donne sono più presenti) non si garantirebbe una performance migliore a vantaggio di tutti?”.