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Serve un marchio unico per il Made in Italy

piantoni

Il manager di successo Alberto Piantoni delinea luci e ombre del Made in Italy e chiama a raccolta gli imprenditori e l’intero tessuto economico italiano per sviluppare un progetto industriale condiviso

Rilanciare e ripensare il Made in Italy, partendo da un format e da un marchio unico capace di esprimere i valori del tessuto imprenditoriale italiano, delle persone e del territorio. In poche parole, fare realmente “rete”, perseguendo la qualità, l’eccellenza e la ricerca in un progetto comune e condiviso da tutti.

È il sogno che da anni coltiva Alberto Piantoni, ex amministratore delegato di Bialetti e Richard Ginori Spa e oggi amministratore delegato di Gruppi Sistemi 2000. Piantoni fa parte della Giunta di Confi ndustria e dal 2006 è membro del Comitato Scientifi co del P.I.Q. (Prodotto Interno Qualità) di Symbola Fondazione per le Qualità Italiane. Il manager bresciano, che ha fatto della qualità il leit motiv della propria carriera, analizza le principali criticità del Made in Italy di oggi e lancia un appello agli imprenditori: “Più comunione di intenti e una maggior condivisione di valori”, con l’obiettivo di costruire, insieme, un unico marchio del Made in Italy trasversale a tutti i settori.

Il concetto di qualità che ritorna spesso nel suo curriculum professionale. Cosa rappresenta per lei?
La qualità per me ha un’accezione più ampia che va al di là del far bene il proprio prodotto. La qualità, in realtà, è un modello di business che abbraccia l’intera fi liera produttiva. Prendo come esempio il Made in Italy che non sarebbe nulla senza le piccole e medie imprese e i micro artigiani, vero motore dell’innovazione del settore. Le medie imprese eccellenti del nostro territorio sono tali perché alle spalle hanno un artigianato di valore che spesso, purtroppo, non viene riconosciuto. Il territorio italiano ha enormi potenzialità: ogni zona, ogni distretto ha la sua specialità, il proprio prodotto e determinate specializzazioni. Il territorio è fondamentale quale elemento dove la cultura si stratifi ca e identifi ca un certo tipo di valori. In questo modello di business, oltre al territorio, devono essere considerati quali valori imprescindibili, l’ambiente e le persone. Oggi purtroppo l’imprenditore tende a correre da solo e tralascia la coesione che potrebbe rappresentare il vero punto di forza. Un altro valore è sicuramente la tecnologia: la storia della moda, del Made in Italy sono ricchi di esempi eccellenti sul fronte della tecnologia ma se ne parla troppo poco. Missoni e Tod’s ad esempio sono marchi dove la tecnologia ha giocato un ruolo determinante. L’Italia è un Paese che produce bello attraverso la tecnologia. Questi quattro elementi, se riconosciuti, possono creare un modello che può viaggiare verso le nicchie alte del mercato. Ci sono una serie di eccellenze che non riescono a emergere perché ognuno ha una visione spesso troppo settaria e particolare che è ben lontana dal modello a cui accennavo prima.

Bisognerebbe quindi imparare a lavorare insieme ad un unico progetto, vedi ad esempio il Made in Italy?
Esatto. Oggi come oggi ogni associazione sta lavorando per creare un proprio marchio del Made in Italy, un marchio che diventa oggetto di tanti piccoli investimenti e che rischia di morire nell’arco di poco tempo. Se invece si imparasse a promuovere un unico marchio su cui far convogliare i vari investimenti i risultati sarebbero sicuramente diversi. Un altro limite da superare è la mancanza di un unico format distributivo del Made in Italy, sull’esempio di Walmart, Lafayette o Carrefour. Oggi l’impresa italiana si presenta sul mercato estero da sola e a forza di colpi di macete trova la sua strada ma in un percorso completamente solitario. Non esiste una sinergia tra chi produce scarpe e chi fabbrica piatti e questo è un errore clamoroso che rischia di isolarci dal mercato internazionale.

Serve un lavoro di congiunzione quindi. Chi può essere il regista di tutto questo?
È un lavoro che possono fare il territorio e l’azienda consapevoli dei loro rispettivi valori. Ci vorrebbe qualcuno che abbia il coraggio di prendere i vari marchi per metterli insieme e creare una specie di Ikea di livello alto del Made in Italy. Non dimentichiamoci che nel concept della casa veicoliamo circa il 90% dei nostri prodotti.

Quale può essere il punto di partenza?
L’input dovrebbe partire dai fondi di fi nanziamento. In Italia la fi nanza non si è mai saldata con l’impresa: se invece i fondi avessero come base di partenza un’idea creativa e un’associazione come Confi ndustria si facesse promotrice del progetto, sono convinto che arriveremmo a qualche risultato concreto. A monte, naturalmente, deve esserci quel modello di business formato da territorio, persone, valori e tecnologia.

Al Made in Italy oggi manca questa concretezza e questa “comunione di intenti”…
Al Made in Italy oggi servono un format e un marchio. Le ultime normative vanno a inquinare i concetti e i valori del Made in Italy, bisogna andare oltre e realizzare un vero e proprio asset industriale. Continuando a far fi nta di niente si rischia di perdere ogni fetta di mercato soprattutto in Italia.

Quali settori possono giocare un ruolo importante?
Sicuramente tutto l’agroalimentare e le produzioni autoctone grazie ai costi relativamente bassi di penetrazione. È un settore che può rappresentare un veicolo molto forte per il Made in Italy e permette di allargare il raggio oltre il settore della moda. A questo aggiungerei anche il tema dell’ambiente e la nuova idea della soft economy che stiamo portando avanti con la fondazione Symbola. Il progetto parte dalla consapevolezza che è possibile essere competitivi e guadagnare solo tenendo conto delle persone e dell’ambiente e quindi partendo dallo sviluppo sostenibile. In poche parole, pensare più al benessere, alla qualità piuttosto che alla quantità. Se avessi un negozio, ad esempio, o un supermercato, penserei prima di tutto a mettere a suo agio il cliente.

Come cerca di applicare questo concetto di qualità e attenzione alle persone, nel suo lavoro quotidiano?
Cerco di orientarmi seguendo come bussola il rapporto con le persone; cerco di fare sinergia con chi mi accomuna nei valori. Con Richard Ginori ad esempio, abbiamo creato una linea di successo insieme a Missoni, grazie a una condivisione di valori. Tutto passa per le persone e deve tenere in forte considerazione i valori che sono alla base di ogni realtà. In Gruppi Sistemi 2000, di cui sono amministratore delegato, stiamo attuando un passaggio epocale perché da una realtà no brand stiamo costruendo un marchio partendo dall’idea di sostenibilità che il suo presidente ha scelto quale strada da percorrere. Abbiamo deciso di farla diventare azienda di marchio per veicolare proprio quei valori della sostenibilità e del rispetto.

Come diceva prima però molti imprenditori si addentrano in percorsi solitari…
Dobbiamo uscire da questi schemi per iniziare a fare realmente rete. Dobbiamo convincerci del fatto che alzare l’asticella della mia qualità e della mia azienda possa dare un vantaggio a tutta la fi – liera e non solo a me, andando oltre a una competitività estrema che spesso può danneggiare l’intero tessuto economico. Bisogna imparare a condividere il sapere, a rispettare le persone e le idee e a lavorare insieme. Nella mia esperienza ho sempre delegato soprattutto ai giovani che rappresentano un motore di innovazione indispensabile alle nostre aziende. In Gruppo Sistemi 2000 abbiamo avuto il coraggio di cambiare: siamo usciti dai tradizionali schemi di arredamento dei supermercati; abbiamo riconfi gurato gli spazi per mettere le persone a loro agio e per veicolari i valori di cui parlavo prima. Il design e la tecnologia sono fondamentali per noi e devono esserlo per tutti, moda compresa. Dobbiamo avere la capacità di rinnovare i nostri marchi che oggi sono sclerotizzati sui loro standard e per farlo serve sicuramente molto coraggio.

Le sue speranze per il 2011?
Sono molto negativo per il 2011: i mercati stanno ripartendo ma la disoccupazione crescerà ancora, i consumi resteranno depressi e non avremo un mercato di sbocco immediato. Questo vuol dire che le imprese faranno ancora più fatica. Molte dovranno concentrarsi sull’export su cui non esiste ancora nulla di coordinato; le aziende dovranno raddoppiare gli sforzi e si troveranno a competere con economie più organizzate.

ALBERTO PIANTONI
Nato a Chiari, nel bresciano, il 6 aprile 1956, consegue la laurea in economia presso l’Università degli Studi di Modena nel 1982 e si specializza negli Stati Uniti (New School for Social Research, New York; Berkley University, Berkley). Dopo alcune prime esperienze come analista presso Centro Studi Olivetti S.p.A. e la Databank S.p.A., nel 1986 entra quale direttore amministrazione e finanza nella Rondine Italia S.p.A., dove successivamente riveste la carica di direttore generale. Dal 1994, ha ricoperto la carica di Amministrazione Delegato o Amministratore Unico di tutte le principali società del gruppo facente capo alla famiglia Ranzoni. Dal 2006 è membro del Comitato Scientifico del P.I.Q. (Prodotto Interno Qualità) di Symbola Fondazione per le Qualità Italiane. Alpinista per passione, interpreta ogni sfida personale e professionale come una vetta da raggiungere. In qualità di Amministratore Delegato del Gruppo Bialetti Industrie contribuisce al raggiungimento degli obiettivi di eccellenza nei quali l’azienda crede. Da sempre interprete della filosofia aziendale che vede l’impegno sociale, il rispetto verso ogni interlocutore, la salvaguardia dell’ambiente e del territorio, gli aspetti fondamentali per la creazione del valore. Il 27 giugno 2007 è stato nominato project manager del Terzo Progetto di innovazione industriale sul Made in Italy patrocinato dal Ministero dello Sviluppo Economico. Ricopre la carica di AD di Richard Ginori Spa dal Marzo 2008 al Dicembre 2009. Attualmente fa parte della giunta di Confindustria. Ricopre la carica di Amministratore Delegato di Gruppo Sistemi 2000 da giugno 2010.