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Puntare sulle ricerca per la qualità della vita in Italia

Giovanni Azzone

Intervista al rettore del Politecnico di Milano. Con i suoi 49 anni è uno dei più giovani rettori nella storia dell’ateneo. Le sue priorità: ricerca, innovazione, rafforamento della rete di relazioni internazionali e una formazione di qualità. Sono i punti chiave su cui Giovanni Azzone, uno dei più giovani rettori nella storia del Politecnico di Milano, sta puntando dal giorno della sua elezione, nel giugno scorso.

Sono i punti chiave su cui Giovanni Azzone, uno dei più giovani rettori nella storia del Politecnico di Milano, sta puntando dal giorno della sua elezione, nel giugno scorso. Azzone, forte dei suoi 30 anni trascorsi nell’ateneo milanese, prima come studente e successivamente in qualità di professore, è consapevole dell’importanza vitale della ricerca quale valore fondante dell’Università e risorsa imprescindibile per il progresso di un Paese.

Professor Giovanni Azzone, uno tra i più giovani Rettori alla guida di una delle maggiori realtà accademiche italiane. Dopo 30 anni trascorsi al Politecnico, quali sono le sue speranze per questo mandato?

Beh, credo che solo in Italia gli under 50 possano essere definiti giovani…A parte le battute, è vero che la mia elezione ha rappresentato per il Politecnico un salto generazionale, che è accentuato dalla scelta di una squadra formata da donne e uomini della mia generazione. Le speranze sono tante, prima di tutto quella di contribuire, alla guida di una istituzione come il Politecnico, a migliorare la qualità della vita del nostro Paese. Vorrei riuscirci, insieme ai miei colleghi, puntando sulle “cose” che un’università può fare: attraendo e formando capitale umano di qualità; sviluppando ricerca e innovazione; rafforzando la nostra rete di relazioni internazionali; agendo, in ultima analisi, come un agente di sviluppo e un driver di competitività. Sicuramente, non sarà facile riuscirci in un periodo caratterizzato da una riduzione dei finanziamenti statali, tanto più in un’università come il Politecnico che è da sempre sottofinanziata; sono però un ottimista: credo che se sapremo proporre progetti di qualità alle istituzioni, nazionali e territoriali, riusciremo a trovare le risorse necessarie.

Cosa sente di portare all’Università della sua esperienza?

Io sono uno degli esempi, spesso vituperati, di docente universitario che ha svolto tutta la sua carriera nell’università dove ha studiato. Credo però che l’essere “politecnico” mi abbia insegnato il rigore, il metodo ma anche la consapevolezza che non posso fare tutto da solo, che ho bisogno della collaborazione di tutti. Penso possa essere importante l’aver unito, in questi anni, all’esperienza accademica la possibilità di metterla in pratica in alcune situazioni interessanti, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e in alcune grandi imprese….insomma, vorrei unire la “speranza” del teorico con la “concretezza” dell’uomo di organizzazione.

Il Politecnico di Milano, grazie alla School of Management, è stato inserito dal Financial Times tra le 75 scuole d’Europa più eccellenti ed è stata posizionata tra le 75 scuole d’Europa più eccellenti; unica scuola italiana presente con tre master. Qual è il valore aggiunto che oggi i master qualificati possono dare alle imprese?

Oggi il successo professionale è il risultato di diverse capacità: la competenza disciplinare, l’imprenditorialità e l’attitudine all’innovazione, l’apertura all’interazione con persone di altre culture, in particolare provenienti da Paesi diversi. Credo che un master qualificato, a vocazione internazionale, possa consentire di migliorare tutte queste capacità.

Uno dei capisaldi del suo programma è la ricerca su cui, nonostante tutto, non vuole mollare…Come intende muoversi a riguardo?

Sì, certo che non voglio mollare. La ricerca è un valore fondante dell’Università, è imprescindibile per il progresso di un Paese, senza ricerca non c’è crescita reale. Abbiamo oggi punte di eccellenza in ambiti apparentemente lontani come le scienze naturali applicate e il design, l’energia e i beni culturali, i sistemi di trasporto e il management, il mondo delle costruzioni e delle infrastrutture e la matematica applicata, l’information technology e le politiche territoriali, per limitarsi ad alcuni esempi. Sono convinto che questa pluralità di interessi sia per noi una fonte di arricchimento reciproco. Mi voglio, quindi, muovere su due fronti, uno interno e uno esterno all’Ateneo. Internamente, voglio rafforzare la capacità di operare secondo un approccio multidisciplinare, creando anche da noi dei Design Center sul modello della Aalto universities, dove ricercatori della diverse discipline possano lavorare insieme su problemi complessi. Dall’altro lato voglio che la ricerca esca dai nostri laboratori ed entri nel mondo della produzione con la creazione di vere e proprie partnership con le imprese. Il mondo produttivo deve vederci sempre più come una risorsa.

Come far fronte al sottofi nanzia-mento a cui sono costrette le Università italiane?

Dato il sottofinanziamento diventa fondamentale l’autofinanziamento. Nel 2009 abbiamo raccolto 70 milioni di euro, di cui metà da bandi competitivi e metà dal trasferimento tecnologico della ricerca. Se consideriamo anche l’apporto della Fondazione Politecnico, dei consorzi e degli spin off abbiamo finanziamenti annui per 120 milioni. Se però vogliamo continuare a garantire standard elevati, sulla didattica e sulla ricerca, non possiamo accontentarci di quanto fatto sinora. Bisogna programmare a lunga scadenza, dando più spazio a intese di medio-lungo periodo con tutti i nostri partner, pubblici e privati che siano, evitando così collaborazioni occasionali. Il nostro modello è l’intesa firmata nel 2008 con Eni, che ci ha consentito di sviluppare competenze importanti in ambito internazionale.

L’ingresso di 100mila giovani sul mercato del lavoro si tradurrebbe in una crescita del Pil di circa 0,2 punti, mentre ogni 100mila donne occupate in più si avrebbe un impatto di circa 0,3 punti sul Pil. Eppure in italia oltre il 20% dei giovani tra i 15 e i 29 anni hanno abbandonato la scuola senza un diploma e non lavorano e 2 milioni di giovani sono senza lavoro. Quale potrebbe essere la chiave di volta?

Capire il valore intrinseco della formazione è il primo passo. Oggi scuola e università si parlano sempre di più e parlano sempre di più con il mercato del lavoro. Tante sono le iniziative con il mondo dell’istruzione media-superiore e anche la scelta di introdurre il test d’ingresso a ingegneria ci ha permesso di alzare il livello di qualità dei nostri studenti e di orientarli verso una scelta più consapevole riducendo gli abbandoni. L’università dall’altro lato fa molto creando momenti di incontro fra studenti e imprese; a questo scopo organizziamo 4.500 stage in azienda all’anno attraverso il nostro Career Service che conta 1.500 partner aziendali per stage e tirocini. Certamente ciò rappresenta una corsia preferenziale verso il mondo del lavoro. Pensare al futuro dei propri laureati è una delle responsabilità dell’università e noi siamo attenti alle richieste del mercato anche per quanto riguarda la scelta dei nostri percorsi didattici. Dopo la laurea dobbiamo agevolare i percorsi di carriera in sinergia con le aziende attraverso la creazione di corsi professionalizzanti.

Cosa è chiamata a fare l’università e cosa il mondo del lavoro?

L’università deve formare e innovare. Per questo agli studenti non si insegna solo la teoria, ma anche a lavorare insieme a progetti specifici, imparando oltre alle competenze tecniche a confrontarsi con linguaggi e culture diverse su tavoli multidisciplinari. Formare architetti, designer e ingegneri significa aiutare e sviluppare in loro un senso etico, una responsabilità nel lavoro che andranno a svolgere. Il mondo del lavoro ci vede e deve continuare a vederci come un punto di riferimento sia per la qualità dei nostri laureati che per quella della nostra ricerca. Come detto per muoversi in un ambiente competitivo sempre più globale e dinamico queste partnership non devono essere occasionali, ma di medio-lungo termine, perché senza una programmazione non si può fare vera innovazione per il Sistema Paese. L’impresa deve anche saper investire sulle persone e pensare a percorsi di formazione continua in collaborazione con le migliori università.

Le Start-up rappresentano il segno concreto dell’innovazione che nasce e cresce nelle nostre università. Come sarà il 2011 del Politecnico su questo fronte?

Il ruolo di incubatori e acceleratori di impresa è importante per attuare quella cooperazione con l’impresa indispensabile per creare buone partnership nel tessuto produttivo. Certamente in questo svolge un ruolo importantissimo la Fondazione Politecnico che gestisce il nostro acceleratore d’impresa. Siamo stati tra i primi atenei italiani a comprendere l’importanza del sostegno all’imprenditorialità per promuovere la ricerca all’interno dell’università, creando nel 2000 l’Acceleratore d’Impresa, con il contributo di importanti strutture pubbliche e private. Per il 2011 pensiamo di continuare a investire ancora in questa direzione. Verrà attivato quest’anno anche il Fondo Politecnico per l’Innovazione, messo a punto insieme a Unicredit, per assicurare la presenza di un seed capital importante a start up innovative.

Il sistema universitario italiano ha una scarsa capacità di attrattiva nei confronti degli studenti stranieri. In che modo è possibile accrescere l’appeal degli atenei italiani all’estero?

La situazione sta molto cambiando in questi anni. Il Politecnico di Milano, in particolare, ha agito secondo tre direzioni: abbiamo introdotto 14 lauree magistrali in lingua inglese; abbiamo rafforzato i servizi residenziali, che arriveranno, una volta ultimati i progetti in corso, a 3000 posti alloggio; abbiamo operato insieme alle istituzioni per consentire una adeguata promozione in ambito internazionale e per diminuire gli ostacoli burocratici che angustiano chi voglia studiare in Italia. I risultati si sono visti: quest’anno, il 22% degli immatricolati ai nostri corsi di laurea magistrale sono
stranieri, un livello direi paragonabile alle principali università europee, se escludiamo quelle anglosassoni, “avvantaggiate” dalla lingua. Certamente, non possiamo accontentarci: stiamo lanciando un progetto di attrazione di studenti stranieri in collaborazione con il sistema delle imprese, focalizzandoci su sette mercati interessanti; Brasile, Russia, Cina, India, Cile, Canada e Vietnam. Vogliamo creare degli “ambasciatori” che valorizzeranno il nostro sistema Paese.

Verso quale direzione sta andando il sistema universitario italiano?

L’Università italiana ultimamente è stata bistrattata e la sua immagine ne ha risentito. Credo invece che ci siano molte realtà di qualità che possano misurarsi con le eccellenze internazionali. E’ essenziale però decidere se, come sta accadendo nei principali Paesi europei, anche l’Italia voglia sviluppare alcune “flagship”, focalizzare cioè le proprie risorse su alcuni centri di eccellenza, in grado di competere a livello internazionale. Altrimenti, credo che anche gli aspetti più positivi della riforma “Gelmini” rischino di avere un impatto modesto sul sistema.

Cosa si aspetta da questo 2011 sul fronte del sistema economico nazionale?

Purtroppo poco, mi sembra che la competitività non sia al centro del dibattito nel Paese. Speriamo che le imprese e le istituzioni possano trovare al proprio interno la forza di reagire a un clima “stagnante”…da parte nostra, credo sia doveroso cercare di fare la nostra parte!