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Economia/Imprese

Aziende declinanti e aziende di successo. Fattori chiave in mercati globalizzati

tremolada

I dati 2010 sulle chiusure Aziendali dei Tribunali Fallimentari sono allarmanti, l’aumento medio in Italia è stato del 18%. Lo scenario per il 2011 presenta forti segnali di fragilità e incertezza: il rischio di insolvenza tra le società di capitale italiane rimarrà a livelli significativamente superiori rispetto al periodo precrisi, con 67,7 su 100 secondo il Cerved Group Risk Index (indice elaborato da Cerved Group che fornisce una misura predittiva del rischio medio di insolvenza).

Il rischio che il ciclo di vita delle imprese si interrompa è alto, soprattutto in quelle famigliari che hanno dinamiche diverse dalle altre tipologie di aziende, essendo legate soprattutto alle sorti dell’imprenditore o dei suoi eredi nel caso di passaggio generazionale (meno del 15% delle imprese sopravvive alla terza generazione secondo un focus di Intesa San Paolo Private Banking).

Ma anche per grandi aziende, come evidenziano report editi in Usa e in Europa sulla vita delle aziende di successo (quelle che figurano tra le prime 500 nella classifica Fortune), la vita media è di diciotto anni; il 60% di quella stilata da Fortune nel 1970 non esiste più. L’incertezza dei mercati sempre più liquidi (secondo Zygmunt Bauman sociologo e filosofo polacco), appare strutturale essendo rivolta al futuro come sottolinea Peter Drucker (economista e saggista austriaco)  in “The Practice of management”.

L’incertezza è diventata così grande da rendere inutile la pianificazione su analisi probabilistiche. Michael Porter (accademico, economista statunitense e professore all’Harvard Business School) individua nella differenziazione uno dei vantaggi competitivi e rappresenta uno degli obiettivi della strategia. Secondo lo stesso Porter “un’impresa si differenzia dai suoi concorrenti quando fornisce qualcosa di unico, che abbia valore per i suoi acquirenti”.

Henry Mintzberg (accademico Cana-dese studioso di scienze gestionali, ricerca operativa, organizzazione e strategia) teorizza che la strategia effettivamente realizzata è quella “emergente”, ovvero l’insieme di decisioni che i singoli manager adattano alle circostanze esterne. Le decisioni derivano dalla conoscenza e dall’esperienza; l’importanza di saperle gestire è stata messa in evidenza da Nonaka e Takeuchi nel libro intitolato “The Knowledge-Creatingo Japanese Companies create the dynamics of Innovation” (ediz. 1995). Secondo il Knowledge Management, di cui Nonaka e Takeuchi sono i padri, le fondamenta sono costruire, gestire conoscenza e informazioni di valore per renderle condivise a tutta l’organizzazione, ergo uno degli intangibles asset  fondamentali da non disperdere come fattore competitivo differenziante dell’organizzazione.

Dalla teoria di Nonaka possiamo ricavare quattro tipologie di KM:

  • Kaizen, per incrementare l’efficienza nella gestione attività aziendali;
  • Incremento, di valore generando profi t-to attraverso il patrimonio conoscenza;
  • Concentrazione, di risorse disperse nell’organizzazione;
  • Unione risorse, rendere attivi gli stakeholders creando relazioni e reti.

E quattro metodologie per la realizzazione:

  • Best practice sharing
  • Knowledge Network
  • Knowledge Asset
  • Knowledge Sharing

Il ruolo della proprietà, del top management è fondamentale per lo sviluppo e l’operatività per fare in modo che sia condivisa da tutta l’organizzazione. Come disse Peter DruckerQuando vedi un affare di successo vuol dire che qualcuno ha preso una decisione coraggiosa”. Le considerazioni valgono per tutte le dimensioni aziendali ma se vogliamo identificare fattori chiave della scarsa longevità di una piccola o media impresa dobbiamo prendere in considerazione :

Il passaggio generazionale (difficoltà, preparazione e problemi ecc.);

  • Distinzione fra proprietà e gestione;
  • Scarse deleghe strategiche/operative;
  • Mancanza di management nei ruoli chiave;
  • Ritardo con il quale l’imprenditore si rende conto dei segnali premonitori crisi strutturale della sua azienda.

Per le imprese le fasi sono nascita, sviluppo, maturità e declino (che può comportare il dover chiudere o uscire dal business); in generale quando un’impresa si trova in una fase di crisi (corrispondente a quella intermedia fra maturità e declino) decide di cambiare, ma spesso ha raggiunto un punto di potenziale irreversibilità. Se in azienda si decidesse il business change management fra le fasi sviluppo e maturità, si innesca una nuova curva di crescita, si dispone di maggiori risorse e l’appetibilità per le istituzioni del credito è maggiore, attivando un nuovo percorso di development competitive advantage.

Decidere non è facile, presuppone uno spostamento paradigmatico interno dell’azienda.

Durante la fase di declino anche gli indicatori economico finanziari sono l’evidenza del non buono stato di salute aziendale. Gli elementi negativi sono sotto l’occhio di tutti:

  • Commitment e fidelizzazione stakeholders (anche clienti) ai minimi livelli;
  • Perdita immagine e reputazione sui mercati;
  • Caduta dei profi tti;
  • Perdita dei collaboratori migliori (che possono fare la diff erenza);
  • Gestione quotidiana reattiva che genera muda (sprechi);
  • Esaurimento dei key competitive factor;
  • Il declino colpisce le aziende di settori che non hanno saputo cambiare rotta sotto il montare della commoditizzazione che li ha colpiti.

Prendiamo come esempio alcune aziende del settore fonderie alluminio e ghisa: sono principalmente di piccole dimensioni per numero di addetti e per fatturato, a conduzione padronale. Sulla scia dei successi ottenuti quando i mercati erano locali e bastava produrre e vendere non si sono “attrezzate” per i cambiamenti. Hanno un potenziale molto alto ma sfruttato in minima parte (in tal senso basterebbero alcuni interventi mirati a costi minimi, sui quali non entro nel merito pur potendo dare suggerimenti).

Lo dimostra il loro approccio da follower reattivi  (solo in caso di crisi evidenti), capaci principalmente di attività spot sui mercati, vendita door to door, telemarketing, partecipazione a fiere.

Bruciando risorse come scrive Danilo Zatta partner Simon Kucher & Partners autore del libro “Battere la crisi – 33 azioni a rapido impatto per la vostra”. Senza reali benefici strutturali di lungo periodo per quanto riguarda fatturato e profitti, per loro il declino potrebbe essere una parte del prossimo futuro, se non si vorranno adattare all’idea che da soli (senza validi collaboratori anche esterni e facendo network) non possono andare molto lontano rischiando di bruciare tutto quanto costruito.

In un recente workshop dal titolo “Integrare per innovare” Andrea Pontremoli (Ceo di Dallara Automobili Spa) ha evidenziato come “le aziende devono essere aperte, uniche ed avere una collocazione precisa nel mercato”. L’unicità genera stakeholders value e intangibles know how, parte degli asset fondamentali per competere nei mercati glocalizzati liquidi.

Una “Pursuit of Excellence”, per usare il claim del loro sito web, che per Dallara Automobili Spa significa leadership nel settore automobili da competizione difficilmente clonabile, o come Mtv Italia nell’affollato settore dei music media. Ha saputo intercettare un pubblico difficilissimo e nomade come quello dei giovani (con i quali gli approcci classici di marketing non funzionano), diventando “trendsetter” con capacità di lanciare, dettare mode e tendenze.

Apple e Ducati sono esempi di altri brand, che in mercati ben più affollati e difficili di quello delle fonderie (che hanno barriere all’uscita e scarsi prodotti sostitutivi per i clienti), hanno saputo ridefinire i mercati stessi potendosi permettere di dettare “nuove regole”. Pertanto “volere è potere”. Le aziende veramente innovative che hanno saputo per tempo rivoluzionare il loro business, aprendosi all’esterno, facendo conto sui talenti (non necessariamente espressione del ramo famigliare) stanno avendo successo.

Imprenditori illuminati come il mitico Adriano Olivetti e aziende best in class quali Brevini Spa, Brunello Cucinelli Spa, Elica Spa, Illy Caff è Spa, Ferrero Spa, Gromart Spa, Yoox Spa, Landi Renzo Spa, Luxottica Group Spa, Pagani Automobili Spa, Technogym Spa, Tod’s Spa, Thun Spa lo dimostrano.

Award quali i Goodwin (Università di Siena), L’Imprenditore dell’Anno (Ernst & Young), Sodalitas So-cial (Fondazione Sodalitas) e il Great Placet o Work premiano le eccellenze Italiane.

Il ciclo di vita del prodotto è assimilabile a quello aziendale. Introdotto nel 1965 da Theodore Levitt (Economista Americano e professore all’Harvard Business School) è il susseguirsi delle fasi di introduzione, crescita, maturità, declino e  implica l’adozione di differenti strategie di marketing e posizionamento del prodotto. Strumento molto utile ma pericoloso se si limita la visione all’interno dei mercati di riferimento.

Youngme Moon (professoressa di Business Administration all’Harvard Business School) propone tre strategie per “rivoltare” il classico ciclo di vita del prodotto che è assimilabile a quello aziendale. Attraverso queste strategie è possibile riposizionarsi in modo inaspettato (interessante con trattazione approfondita dell’argomento il suo libro “Differente – Il conformismo regna ma l’eccezione domina”):

Reverse positioning – Brand Capovolti Eliminando attributi e funzionalità inuti-li, semplifi cando, ma aggiungendo servizi nuovi ed inaspettati. Così è possibile ri-portare un prodotto-azienda ad una nuova fase di crescita. Google e Ikea un esempio.

Breakaway positioning – Brand Defezio-nisti Uscire dalla categorizzazione cambiando la percezione degli stakeholders permette di saltare dalla maturità ad una nuova fase di crescita. Kimberly Clark (con pull-ups), Fox (con i Simpson) e Swatch (con gli orologi fashion di plastica) esempi.

Stealth Positioning – Brand Defezionisti Posizionamento circospetto per associare un prodotto-azienda ad una categoria ben accolta dal mercato. Per esempio Sony, con Aibo non assimilato a robot ma a cane elettronico di compagnia.

Daniel Kahneman, psicologo, vinse insieme a Vernon Smith (economista statunitense) il Premio Nobel per l’economia nel 2002 con la seguente motivazione: «Per avere integrato risultati della ricerca psicologica nella scienza economica, specialmente in merito al giudizio umano e alla teoria delle decisioni in condizioni d’incertezza». Amos Tversky, psicologo, dimostrò, tramite esperimenti, che i processi decisionali umani violavano sistematicamente alcuni principi di razionalità. Nel caso specifico posizionando e presentando un prodotto-azienda in maniera differente, ma pur sempre con stakeholders value esperienziale.

Ma il Brand Diversity Management necessita di un’attenzione maniacale dei dettagli, se ci vogliamo riferire ai dettami di quanto scritto in “Selfmarketing – avere successo nell’era del mercato sociale” di Nicola Santoro e Luigi Di Salvo, che necessita di una trattazione a parte approfondita.

A cura di Alberto Claudio Tremolada Customer & Supplier Relationship Manager fonderie – Consigliere e socio Adaci sez. Lombardia/Liguria (Ass. It. di Management degli Approvvigionamenti)