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Economia/Imprese

La Borsa ha poche società quotate: ecco perchè

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Borsa Italiana ha 200 anni di vita, ma solo 344 società a listino. Se è cresciuta l’evoluzione tecnico-organizzativa, il numero delle aziende presenti è ancora limitato rispetto alle altre economie avanzate. L’analisi di un fenomeno tipicamente made in Italy

Il 2008 è un anno di anniversari importanti per la Borsa Italiana. Duecento anni di vita, dieci anni da società “privata”, ma, soprattutto, il primo anno sotto il controllo del London Stock Exchange. La “Borsa di Commercio di Milano” fu costituita nel gennaio del 1808 da Eugenio Napoleone e mantenne un carattere “pubblico” fino al 1998, quando, seguendo una tendenza comune alle piazze finanziarie di tutti i paesi, si è trasformata in società per azioni e la sua proprietà è stata ceduta ai suoi “stakeholders”: intermediari ed emittenti. Pochi mesi fa questi azionisti hanno accettato l’offerta di scambio di London Stock Exchange Plc, che oggi detiene quindi la quasi totalità delle azioni di Borsa Italiana S.p.A.. La borsa di Londra peraltro è lei stessa una società quotata, i cui principali azionisti sono arabi: la Borsa di Dubai e l’autorità per gli investimenti del Qatar. Negli ultimi decenni l’evoluzione tecnico organizzativa della Borsa Italiana, così come della maggior parte dei mercati finanziari mondiali è stata impressionante, guidata da un lato dallo sviluppo delle tecnologie informatiche e delle telecomunicazioni, dall’altro dalla crescente complessità dei prodotti finanziari. Tuttavia una amara caratteristica del nostro mercato permane invariata: il numero estremamente limitato di società quotate. A fine 2007 esse erano 307, una cifra non molto dissimile a trenta anni prima e inferiore quella di paesi con economie molto meno sviluppate della nostra. Sul perché le aziende italiane non si quotano, sulla loro estraneità alla cultura del mercato si è detto molto, ma il permanere del fenomeno merita ancora qualche riflessione. In genere i principali motivi di questa situazione vengono indicati in:
• un trattamento maggiormente favorevole, dal punto di vista fiscale, del capitale di debito rispetto ai mezzi propri, per via della deducibilità degli interessi passivi;
• una naturale ritrosia degli imprenditori domestici ad accettare l’inevitabile maggior grado di trasparenza che la quotazione richiede;
• il diffuso timore che la presenza di soci estranei possa condurre gradualmente alla perdita del controllo sulla società, percepita come bene “famigliare” prima ancora che “sociale”;
 • la scarsa propensione del sistema bancario italiano a promuovere canali “diretti” di raccolta finanziaria che renderebbero più autonome le imprese e richiederebbero un diverso approccio alla gestione del rischio da parte delle banche stesse; • l’eccessiva complessità della disciplina giuridica riguardante le società quotate, che è stata appesantita a seguito degli scandali finanziari senza alcuna differenziazione per le società minori. Tutti questi fattori sono veri, anche se, nel corso degli anni, il peso relativo di ciascuno di essi è sicuramente variato: basti pensare ai recenti provvedimenti in tema di fiscalità.
C’è spazio per un mercato per le piccole e medie imprese italiane? C’è un’ulteriore importante riflessione che deve essere fatta: il sistema italiano è notoriamente dominato da imprese di dimensioni medio-piccole (“SME” Small & Medium Enterprises). Se si vuole incrementare il numero di società quotate è indispensabile concentrare gli sforzi in questo comparto. Tuttavia i mercati per le SME hanno caratteristiche particolari, diverse da quelle dei mercati principali. Essi debbono infatti soddisfare due principali esigenze: semplicità per gli emittenti che vi accedono e liquidabilità delle posizioni da parte degli investitori. La prima preoccupazione degli investitori in SME riguarda infatti la liquidità delle loro posizioni: minore è la capitalizzazione flottante di una impresa, maggiore è il rischio di trovare difficoltà nel dismettere la propria partecipazione senza impatti. Attualmente sono in corso due iniziative tese a favorire l’accesso al mercato delle SME italiane. Una è il Mercato alternativo del Capitale (“MAC”), gestito da Borsa Italiana, ma promosso da una società a cui partecipano le principali banche ed associazioni di categoria. La seconda è AIM Italia, la versione nazionale di AIM (Alternative Investment Market), un mercato del Regno Unito di grande successo nella raccolta di capitali per imprese innovative e di minori dimensioni Quali sono le principali caratteristiche del MAC ? Sono adatte ad attrarre le imprese più piccole ? Innanzitutto MAC non è giuridicamente un “mercato regolamentato”, ma un “sistema multilaterale di negoziazione”. Questo implica minori adempimenti rispetto alle società quotate al listino principale. In secondo luogo il sistema ammette solo “investitori professionali”, che si presume abbiano un minore need of protection per via della loro esperienza: ciò consente di non predisporre un prospetto informativo scrutinato dalla Consob, con ulteriore risparmio di tempo e costi. La capitalizzazione delle aziende per il MAC può essere anche molto bassa, il numero di azionisti limitato. In buona sostanza l’unico requisito per l’accesso è che i bilanci siano revisionati da una società di revisione iscritta all’albo della Consob. Fino ad ora, complice la congiuntura negativa, le società che si sono quotate al MAC sono solo quattro, anche se numerose altre si sono dichiarate interessate. Ma ciò che serve per rafforzare l’iniziativa è uno sforzo sul lato degli investitori. Investire su SME richiede infatti un approccio particolare e risorse dedicate. Alcuni interventi si potrebbero rivelare adeguati a questo fine: • una diversa politica di incentivazione fiscale all’investimento in equity. In passato si è già seguita questa strada, ma concentrandosi sull’agevolazione alle imprese quotate. Le esperienze straniere insegnano invece che ciò che deve essere agevolato è il trattamento fiscale dell’investitore, anche delle persone fisiche, fino alla totale esenzione nel caso di investimenti di durata adeguata in imprese innovative;
• la promozione di fondi di investimento specializzati in SME. Un ruolo importante lo possono giocare in questo campo anche istituzioni locali, fondazioni ed il sistema bancario;
• un’adeguata promozione nei confronti della comunità imprenditoriale;
• l’ulteriore sviluppo di incentivi alla concentrazione tra imprese che avvengano nel contesto dell’apertura del loro capitale al mercato. Il MAC può rappresentare un buon mercato di test per le imprese che vogliono aprire il loro capitale, le quali, successivamente ad una crescita virtuosa potranno in seguito accedere ad un mercato più complesso. In questo senso va anche la seconda iniziativa di Borsa Italiana nel campo delle SME: l’avvio di AIM Italia. Molti investitori con sede a Londra si sono specializzati in questo segmento e la possibilità di attrarli su imprese italiane fornendo loro la copia di un “contenitore” che già conoscono è una strategia degna di attenzione. La caratteristica più interessante di AIM è la presenza di un intermediario (il Nominated Adviser) che garantisce, anche da un punto di vista reputazionale, la qualità delle imprese che si quotano. AIM sarà un mercato aperto anche al pubblico retail e nelle intenzioni dovrebbe rivelarsi ideale per società con una capitalizzazione media ed un numero di azionisti numeroso. In conclusione, se si considera l’apertura del capitale una condizione desiderabile per favorire la crescita dimensionale delle nostre imprese e quindi per farle meglio competere nell’arena globale, MAC ed AIM Italia sono iniziative che dovranno essere seguite con attenzione e favorite.

di Marco Fumagalli
docente di Economia e Tecnica dei Mercati Finanziari all’Università di Castellanza