Traversalità e interdisciplinarietà come qualità fondanti della cultura del progetto all’italiana
Cosa caratterizza il Made in Italy nel mondo del design e dell’architettura? Quale la qualità che ci rende unici? Secondo Giulio Ceppi, architetto e designer italiano, è la trasversalità ovvero la capacità di seguire il progetto in tutti i suoi aspetti. Per questo l’italianità è ancora un valore aggiunto.
Esiste una specificità italiana nella professione del designer e dell’architetto? Qual’è la principale specificità per il Made in italy dei designer, se così possiamo definirlo?
Quando si ha la fortuna di girare per il mondo come architetto italiano, quasi tutte le altre culture del progetto del pianeta restano parecchio sorprese e sempre stupite, a volte al limite dell’incredulo, di fronte ad un nostro forte attributo: la trasversalità e l’interdisciplinarietà. Se per noi è infatti normale nel progettare un edificio occuparci degli interni e dell’arredo, quindi dell’illuminazione e se necessario del giardino e dell’esterno, in altre culture, di matrice anglosassone sopratutto, sarebbe altrettanto naturale affiancare all’architetto un interior designer, un lighting designer, un lanscape architect. Specifichiamo subito che non è tale atteggiamento né dovuto ad un delirio di grandezza o alla megalomania della cultura del progetto italiana, né tantomeno ad una sorta di maniacalità o perfezionismo delle altre culture, come verrebbe forse naturale pensare in prima istanza. Si tratta di una tradizione che viene da lontano, che ha radici nella nostra cultura umanistica e nell’idea rinascimentale delle arti, laddove l’artista si occupava di pittura, di scultura, di architettura, di urbanistica…e sarebbe stato imbarazzante se non avesse avuto l’estro e la maestria di passare da un campo disciplinare all’altro.
Esiste quindi una tradizione che viene da lontano relativamente alla “trasversalita'” o parliamo di un fenomeno recente?
Già da prima del Rinascimento vi era un continuum tra queste discipline, che spesso sul piano concettuale si intrecciavano le une con le altre. Inutile citare gli esempi di Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio, Michelangelo Buonarroti, piuttosto che di un Bernini o Borromini. Per non dire come anche l’attività di teorico e codificatore facesse spesso parte di questo insieme, figure quali Vasari o Vitruvio ci insegnano. Scrivere, dipingere, costruire erano parti di un’unico sapere umanista, nella piena tradizione di quanto poi è diventato la cultura delle Belle Arti, che non implicava il non occuparsi di aspetti operativi e tecnici, quali l’ingegnerizzazione o la gestione del cantiere (come il caso di Brunelleschi e della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze ci insegna) piuttosto che trascurare aspetti funzionali, civili e militari, come testimoniano le fortificazioni di un Leonardo o le sue opere idriche per l’irrigazione e la regolamentazione delle acque dell’Adda o del milanese.
Ma qual’è l’attualità di questa tradizione e quanto è importante per il futuro del Paese e suo giudizio?
Tutto questo è tremendamente attuale e costituisce per la nostra “cultura creativa” e progettuale una fortissima specificità, tanto quanto invece la specializzazione e la segmentazione del sapere fanno parte della cultura anglosassone e delle scuole tecniche di tradizione nord-europea, dove la parcellizzazione del sapere e la segmentazione verticale delle competenze regna sovrana. Sono due modelli culturali, sociali ed imprenditoriali, di organizzazione del lavoro e della produzione fortemente differenti. Credo sia fondamentale per dare al Made in Italy, meglio definibile piuttosto come Making by italics, un valore chiaro e strategico, non solo legato alla fisicità solida delle cose, mai ai processi con cui vengono generati e con i quali si tramanda il knowhow tanto quanto ci si garantisce un futuro.
Chi vincerà tra questi 2 modelli? Vede una vittoria all’orizzonte?
Credo che questi due modelli concettuali e operativi, compresenti in Europa, siano assolutamente complementari e compatibili, a patto ovviamente che noi non rinunciamo nel mentre e disperdiamo la nostra matrice umanistica e interdisciplinare. Umberto Eco (a sua volta raro quanto eclettico esempio di saggista, semiologo e romanziere…) diceva anni fa che l’architetto è forse l’ultimo umanista, in quanto nel suo operare deve miscelare differenti conoscenze e discipline, dalla sociologia, all’economia, all’ingegneria… : la cultura progettuale e la creatività italiana (mediterranea forse?) trasversale ed interdisciplinare, ne sono la premessa fondante e la condizione generante.
Ci può fare degli esempi concreti di quanto dice?
Quando creai TOTAL TOOL, la mia società di progettazione nel 1999, dopo le esperienze fortemente multidisciplinari di Domus Academy e Philips design, questo era il modello concettuale cui mi riferivo forse inconsciamente in parte, e che credo sia invece oggi una peculiarità del nostro sistema creativo che non vada perduta o dispersa, ma alimentata e sostenuta, attraverso la formazione prima e la capacità aperta di dialogo con l’impresa e la committenza poi. Esempi illuminanti di trasversalità come Città dell’arte, fondata a Biella da un artista come Michelangelo Pistoletto ce lo dimostrano concretamente, nella capacità operativa di miscelare arte e sociale, formazione e progetto, territorialità e internazionalizzazione.
Quanto altri professionisti italiani nel mercato della creatività interpretano quanto lei dice?
Se oggi guardiamo, secondo i dati forniti dal Rapporto 2013 sull’imprenditoria del progetto redatto da Aldo Norsa dello IUAV di Venezia, ai fatturati dei principali studi italiani di architettura, troviamo soggetti come Renzo Piano (n 1 in classifica), Massimiliano e Doriana Fuksas (n 2), Antonio Citterio (n 5), Lissoni (12), Thun (n 14), DeLucchi (n 16), che tutti si occupano di architettura, di interni, di prodotto, di identità di marca…. attuando spesso come design directors, come registi di un processo creativo. Siamo quindi ancora nella tradizione, non più artigianale ed individuale, ma imprenditoriale e strutturata in team internazionali, dei maestri italiani del dopoguerra, quali furono Vico Magistretti, Angelo Mangiarotti, Ettore Sottsass, Marco Zanuso, solo per fare 4 esempi credo a tutti noti: oggi siamo oltre la sperimentazione permanente del dopoguerra, ma dentro una macchina mediatica e globale, che si confronta con la terribile monotonia delle archistar, dove i segni si ripetono spesso a scale e contesti diversi, ma solo in quanto forme, simbologie ad elevata scalabilità, dove tra un lampada, una grattacielo, una scarpa, forse nulla cambia, se non la dimensione appunto.
Quindi il fenomeno delle cosiddette archistar rappresenta una sorta di degenerazione della professione? Ci può spiegare meglio?
Le archistar sono un fenomeno recente e non italiano, mentre da noi, già nel 1952, Ernesto Nathan Rogers, storico membro dei BBPR e fondatore di Casabella, declamava il motto “Dal cucchiaio alla città”, laddove non si trattava di scalare dimensionalmente forme, ma di trasmettere una sensibilità ed un metodo, di condividere un approccio creativo, forse anche di pretendere di connettere l’infinitamente grande con l’infinitamente piccolo. Non è che Frank Lloyd Wright, Walter Gropius o Le Corbusier avessero atteggiamenti diversi, ma erano appunto ricercatori ed umanisti, non personaggi da talk show televisivo, da sequel creativo, coma un Libeskind o una Hadid. Basta vedere come oggi gli chef stellati oscurano le archistar per celebrità mediatica: in televisione si può cucinare, mentre progettare resta più difficile…
Allora come italiani possiamo sfuggire a questi “luoghi comuni della creatività?
Nello spazio appunto dell’interdisciplinarietà, ambizioso ed estremo presidio, risiede il genius della nostra industria creativa, la natura profonda della cultura umanistica e imprenditoriale italiana, che deve continuare ad emergere e differenziarsi per coraggio e originalità, senza autocelebrarsi eccessivamente come a volte accade. Connettendo micro e macro, incrociando grandi visioni con il dettaglio a scala 1:1, coniugando il “saper immaginare” con il “saper fare” saremo ancora quanto siamo stati dal Rinascimento in poi, e continueremo, sempre rinascendo appunto, ad essere. Almeno me lo auguro.
Testo a cura di Fabrizio Amadori