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Marketing

Il valore del “non-messaggio” dall’arte alla pubblicità

marabini

Quanto siamo liberi nel giudicare un’opera per quello che vale indipendentemente dall’autore? E quanto conta la forza del messaggio in pubblicità quando è totalmente celato dietro l’estetica della comunicazione? Questioni di contenuto, anche se a volte la forma è tutto…

“Don’t judge a book by its cover”. Così cantava Tim Curry nel Rocky Horror Picture Show e, viste le circostanze (per chi conosce questo cult-movie), c’era da capirlo. E’ vero, non bisogna giudicare un libro dalla sola copertina. Tuttavia in quella frase è intrinseco un concetto più esteso: il nome del celebrato romanziere che compare in copertina non necessariamente è garanzia di un ottimo libro; così come non è affatto detto che uno scrittore di scarso talento non possa scrivere un capolavoro. Spesso invece il conformismo e il timore di perdere credibilità o autorevolezza ci fanno esprimere giudizi di convenienza. Manca l’onestà di ammettere che anche un mediocre può essere geniale. Forse quando Pirandello scriveva del “Piacere dell’onestà” si riferiva anche a quella intellettuale. Facciamo qualche esempio concreto. Conosco e ammiro molti cantautori colti, raffinati e celebrati da pubblico e critica, da Tom Waits a Leonard Cohen, da Peter Gabriel a Bob Dylan. Eppure mi sono imbattuto qualche anno fa in una strofa folgorante, parole d’amore disarmanti nella loro immediatezza e semplicità: “I don’t care who you are, where you’re from, what you did, as long as you love me”. L’autore? I Backstreet Boys! Che, per inciso, trovo persino offensivo considerare musicisti. Ma non ho storto il naso quando ho scoperto che ne erano loro gli autori, e non mi spaventa l’idea di ammettere pubblicamente che mi è piaciuta.

Chi, senza conoscere la musica classica, ha visto il pur ottimo “Amadeus” di Milos Forman ne avrà dedotto che Salieri era un compositore mediocre, sostanzialmente invidioso del genio di Mozart. Nella realtà -oltre ad essere uno dei principali tutori del salisburghese-, Salieri scrisse anche cose eccellenti: ascoltare per credere. Come mai certi cinefili non hanno il coraggio di ammettere che “Lo chiamavano Trinità” è un capolavoro, anche se il regista non si chiama Wenders o Kurosawa? Forse che citare E.B.Clucher, al secolo l’italianissimo Enzo Barboni, sia sconveniente? A questo proposito, Ennio Flaiano scrisse un libro il cui titolo era tutto un programma: “Frasario per passare inosservati in società”. Non esattamente un testo di riferimento per quegli intellettuali da salotto radical-chic che citano premi Nobel egiziani per la letteratura, registi polacchi, filosofi cinesi, più per darsi un tono che per sincera ammirazione (o effettiva conoscenza delle relative opere…).

Manca infine, au reverse, il coraggio di ribellarsi quando anche il “grande maestro” fa cilecca. Avercene di Fantozzi che stroncava “La Corazzata Potemkin” di Sergei Eisenstein con un giudizio quanto mai vero e lapidario (devo citarlo?). Esempi, anche qui: considero Mario Monicelli un genio della macchina da presa. Basterebbe citare titoli come “La grande guerra”, “Amici miei” o “Il Marchese del Grillo”. Eppure ha diretto pellicole sconclusionate e cialtrone come “I Picari” o “Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno”. Ops, l’ho detto. Fellini? Sarò impopolare, ma fatte salve alcune intuizioni magistrali, una buona parte della sua produzione la trovo fiacca e decisamente presuntuosa. Guai però a riferirlo a qualche giurato di Cannes, Venezia o Berlino. Andiamo oltre. Ma chi l’ha detto che un’espressione artistica debba per forza contenere un messaggio? Perché non può essere fine a se stessa e basta? Pensiamo più in generale al concetto di Arte per l’Arte (“Ars gratia artis” per dirla con gli antichi romani, o “Art for art’s sake” se vogliamo farci belli con Oscar Wilde). Eppure c’è sempre stato uno strisciante razzismo culturale, soprattutto in Italia, di cui è vittima chi ama l’arte per quella che è, anche se questa non reca alcun messaggio. Per molti invece ogni quadro, canzone, poema, scultura o film deve necessariamente averlo, sennò è aria fritta. Non sono d’accordo. Come diceva quel tale, “Se vuoi mandare un messaggio, scrivi un telegramma”. Inorridiranno i critici d’arte, ma io dico che non solo “è bello ciò che piace”, ma non necessariamente per piacere deve contenere un messaggio.

E se lo contiene, non è affatto detto che necessiti di un’interpretazione guidata per apprezzarlo. Nella mia assoluta ignoranza della pittura, anni fa a Berlino ho passato un tempo interminabile di fronte ad una tela di un paesaggista tedesco dell’800. Ricordo il titolo del quadro, “Toten Insel” (L’isola dei morti), e non ricordo l’autore. Non credo vi fosse un messaggio in quel quadro, ma colori e contrasti mi avevano letteralmente ipnotizzato, estasiato, rapito: non riuscivo a “staccarmi” da quel quadro. Tanto mi basta per dire che è un’opera magnifica. Ma visto che sulle pagine di questa rubrica si parla spesso di marketing e comunicazione, faccio volentieri una riflessione anche sulla pubblicità, un’arte moderna in cui la forma conta (molto) più della sostanza. O, meglio ancora, in cui quest’ultima si confonde con la forma stessa. Alcuni spot tv volutamente non contengono messaggi: il “comprate questo prodotto” in certe categorie merceologiche è scomparso sin dai tempi del Carosello. Eppure la pubblicità dovrebbe fare di quel messaggio il proprio motivo di esistere, ma oramai è subliminale. Pensate genericamente allo spot per un’eau de toilette. Il parlato in sottofondo non descrive l’aroma di quel profumo (compito peraltro molto arduo), l’ambientazione non aiuta ugualmente, perché si tratta spesso di scenari virtuali o fittizi.

Tutto è vago e decontestualizzato. C’è solo questa musica suadente che accompagna lo scorrere vellutato delle immagini. Messaggi impeccabili, esteticamente. Ecco il concetto: estetica! Grazie, Kant. A proposito del filone dei “non-messaggi” molti citano le campagne di Oliviero Toscani per Benetton: nessuna comunicazione sul prodotto o visualizzazione dello stesso, tutto è finalizzato al “branding”, peraltro indiretto, ottenuto con immagini anche choc, che nulla hanno a che vedere con l’abbigliamento. Ma, per coerenza, su questo argomento preferirei citare Beppe Grillo, che 20 anni fa realizzò per una nota marca di yogurt un formidabile spot tv. Questo consisteva semplicemente di un primissimo piano a telecamera fissa sul suo volto, impassibile e a labbra serrate. Anche qui, nessuna immagine né prodotto né del logo, ma solo una scritta in sovrimpressione: “Pubblicità telepatica”. Alla fine dei fatidici 30 secondi, Grillo accennava un sorriso e diceva a metà fra il minaccioso e l’ironico: “E adesso provate a comprare qualcos’altro!”. A proposito di onestà intellettuale: non sono un fan di Beppe Grillo, ma come posso negare l’evidenza, cioè che questa è una vera e propria genialata?

Testo di Leonardo Marabini Direttore Marketing, Pianificazione e Sviluppo di Kilometro Rosso