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Economia/Imprese

Il manager? Meglio se Made in Italy

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Aumenta il numero dei dirigenti italiani all’estero, soprattutto per guidare progetti di sviluppo internazionale e gestire filiali decentralizzate. Le figure più richieste: general manager e direttori di stabilimento

Cresce il numero di manager italiani nel mondo. A dirlo è un rapporto realizzato da Promelec International, società specializzata nella ricerca di profili executive che ha fornito, attraverso una sua ricerca interna, una rilettura dei dati relativi alla mobilità dei manager nostrani fuori dai confini nazionali. Dati alla mano si scopre che negli ultimi tre anni il numero di italiani richiamati dall’esperienza all’estero per guidare progetti di sviluppo internazionale, gestire joint venture e avere la responsabilità di filiali decentralizzate, è cresciuto del 90 per cento, soprattutto in India, Cina, Russia, Brasile e Polonia. La tendenza in atto è in costante crescita. Le figure più richieste risultano essere general manager (42%) e direttori di stabilimento (25%) compresi in una fascia di età giovane che va dai 30 ai 38 anni. Questi dati rappresentano un netto cambiamento con il passato: sino a qualche anno fa, infatti, il numero degli italiani all`estero era particolarmente limitato. Ciò non era sicuramente dovuto ad una scarsa considerazione degli executive italiani, quanto piuttosto all`estraneità dei manager e delle imprese ad una cultura della mobilità. “Se nel 2003 solo il 3% degli incarichi condotti dalla nostra società riguardavano posizioni manageriali all’estero – dichiara Ettore Graziadei, Managing Partner di Promelec International -. nel 2007 questa quota è salita al 13% e prevediamo che sia destinata a crescere ulteriormente nei prossimi anni“. Nell`80% dei casi il profilo ricercato è quello di un manager di nazionalità italiana, ma di cultura internazionale, disponibile a trasferirsi perun periodo minimo di quattro anni all’estero, oppure che sia già residente nel Paese di interesse e desideroso di prolungare la sua permanenza. A prova del valore dei manager italiani all’estero, Ettore Graziadei cita i pionieri di questa tendenza. Nomi di spicco nello scenario imprenditoriale che, con il loro operato, hanno accreditato la fama del nostro lavoro manageriale: “Renato Ruggero, Direttore Generale WTO dal 1995 al 1999, e Paolo Fresco (General Electric) a Elio Catania e Lucio Stanca (IBM), Mario Draghi(Goldman Sachs), Paolo Scaroni (Saint-Gobain) e Angela Paciello (Henkel), tutti tornati in patria dopo aver occupato posizioni di assoluto prestigio ai piani alti di grandi istituti finanziari e multinazionali. Ettore Graziadei conclude affermando che la chiave di lettura di questo trend è da individuarsi non solo nella preparazione dei manager, ma principalmente nella volontà delle aziende nostrane di mantenere la propria italianità all`estero come tratto distintivo e qualificante del proprio business: “Il requisito della nazionalità italiana nasce da motivazioni di ordine culturale più che da un riconoscimento di maggiori competenze e capacità. Quando le aziende varano progetti di investimento e start-up all’estero, si sentono rassicurate nel sapere che chi gestisce i loro interessi è una persona con cui condividono lingua, cultura e approccio al business, con cui è facile stabilire un rapporto fiduciario e che porta avanti quel bagaglio di competenze e “saper fare” spesso nate all’ombra dei nostri campanili”.

Enrico Noseda: “I giovani devono provare l’esperienza all’estero”
Enrico Noseda, Direttore Business Development Skype Worldwide, laureato in economia, ha iniziato la sua carriera nel 1993 e fin da subito ha lavorato in multinazionali quali Henkel e Chicco Artsana. La sua avventura all’estero è cominciata solo recentemente, da poco meno di due anni: “Ho sempre avuto un grande interesse per le culture differenti dalla nostra. L’idea di fare qualche anno di esperienza in un paese diverso c’è sempre stata fin dai tempi dell’università. Oggi come oggi consiglio vivamente ai giovani di aprirsi al mondo esterno, approfittare di ogni occasione per fare esperienze sul campo, meglio ancora se internazionali”. Il motivo? In primis perché l’approccio con il mondo del lavoro è diverso: “In altri Paesi si lascia il nido familiare dopo il liceo per fare le prime esperienze lavorative con cui pagare gli studi; anche l’età di laurea è anticipata, di conseguenza a 25-26 anni, quando in Italia si arriva quasi vergini al mondo del lavoro, in altri Paesi si trovano persone mature con competenze manageriali che da noi ci sogniamo”. Una cultura a cui spesso si associa una preparazione diversa: “Ritengo che l’università italiana offra una buona base teorica ma sia molto carente per quanto riguarda il fornire una conoscenza reale del mondo professionale. Si entra in azienda da neo-laureati spesso senza aver la più vaga idea di come concretamente funzioni un’impresa”. L’esperienza all’estero ha portato Noseda verso nuove competenze, come lui stesso afferma: conoscenza dei mercati di riferimento, un approccio di management strutturato; capacità di adattamento. “Un buon manager deve avere tre qualità principali: Business Ethics, flessibilità, apertura mentale, capacità di ascolto e orientamento al risultato”.

Francesco Leone: “Bisogna saper immergersi nella nuova cultura”
Dall’Italia agli Stati Uniti, passando per Svizzera, Austria e Germania. La carriera di Francesco Leone, attualmente manager nel settore marketing alla “Mavens & Moguls”, in Atlanta, Georgia, ha toccato, in oltre 25 anni, culture e modi di lavorare diversi. “Se uno è capace ed è disposto a spostarsi frequentemente in posti diversi non ci sono difficoltà a fare carriera all’estero – spiega Leone -. L’importante è avere una certa apertura mentale e accettare che probabilmente non si ritornerà in Italia per molto tempo. Chi vuole fare carriera all’estero deve riuscire a mantenere il proprio bagaglio di conoscenze tenendolo parcheggiato per i primi tempi. Bisogna essere in grado di immergersi nella cultura del nuovo paese. Regola fondamentale: mai cercare di imporsi ed imporre il proprio modello mentale”. Se negli ultimi anni la presenza di manager italiani all’estero è cresciuta, i motivi, secondo Leone sono principalmente due, economico e culturale: “Con l’avvento del mercato unico molte multinazionali hanno spostato i loro centri strategici in città come Londra e Ginevra e quindi diventa sempre più difficile pensare ad una carriera aziendale esclusivamente in Italia. Il secondo fattore è invece di tipo culturale: le nuove generazioni crescono con i vari progetti di studio all’estero e altre iniziative che li portano a periodi di permanenza oltre confine. Ed è proprio dalla preparazione e formazione che si creano e pongono le basi per la carriera futura. Ma è proprio vero che le università straniere vincono il confronto con quelle italiane? Secondo Leone, ci sono degli spiragli: “Nelle mie esperienze americane ho avuto modo di lavorare o intervistare/assumere laureati di molti programmi MBA Americani. È innegabile che un gran numero di università USA abbiano molte più risorse dei nostri atenei, soprattutto nel campo delle nuove tecnologie. È anche vero, comunque, che chi si laurea in Italia in una università statale con votazione alta, nei tempi giusti e con attività extra curriculum, esce dall’università con molta più autosufficienza e determinazione rispetto ad uno studente di una tipica università americana che è seguito costantemente. Inoltre credo che la preparazione teorica e di base delle università italiane in discipline come statistica, economia, matematica sia superiore. Le università americane offrono due vantaggi competitivi per chi, in particolare, vuole fare una carriera in una multinazionale: networking e linguaggio, inteso come lingua del business e corporate americana”. Nel corso della sua esperienza Francesco Leone si è aperto a realtà nuove, superando ostacoli e problematiche dettate da culture diverse: “Tra i Paesi in cui ho lavorato, la Germania è stato quello più difficile ma anche il mercato dove ho imparato di più. Si tratta di un ambiente particolarmente competitivo, dove il retail ha un potere enorme ed il mercato è molto regolamentato. Inoltre è anche una sfida dal punto di vista manageriale perché la mentalità tedesca è l’opposto della nostra, quindi, bisogna imparare ad adattarsi ma anche a mantenere e sfruttare i nostri vantaggi”.

Luca Penati: “Noi più poliedrici e creativi”
Non è sempre il lavoro la principale motivazione che guida manager e imprenditori verso rotte lontane. Luca Penati, Managing Director Global Technology Practice, ha iniziato la sua carriera all’estero per caso, come lui stesso racconta: “Mi sono innamorato di una ragazza messicana, ho lasciato i miei genitori, i miei amici, il mio lavoro, il mio Paese e sono andato a vivere a Città del Messico. Avevo 35 anni. Non c’era tempo di vedere se le cose funzionavano a lunga distanza. Pochi mesi dopo ad entrambi è stato offerto un fantastico lavoro in California”. Penati ha lavorato a Milano per 13 anni. Qui ha imparato gli aspetti specifici del mondo della comunicazione, ma soprattutto “l’importanza di lavorare bene con gli altri”. La comunicazione, spiega il manager “non è un lavoro da “solisti”, è un lavoro da orchestra. In Italia ho imparato a suonare un po’ tutti gli strumenti. Poi quando sono arrivato in America, una volta capita la musica, mi sono messo a fare il direttore d’orchestra. Con umiltà, sapendo che senza “fiati” e “violini” non vai molto lontano”. Ma non sono solo gli italiani a trovare più spazio all’estero. Lo stesso Penati lavora quotidianamente con inglesi, indiani, cinesi e filippini, e non solo: “Tutte le domeniche gioco a calcio con persone provenienti da tutti i 5 continenti. Il mondo diventa ogni giorno più piatto e tutti noi facciamo parte di una “global workforce”, dove quello che conta è l’esperienza che hai, non da dove vieni. Se vogliamo competere come Paese a livello globale, dobbiamo capire le nuove regole del gioco. Dobbiamo imparare ad essere più agili, più flessibili e aperti”.Nel settore della comunicazione, secondo Penati, l’italiano può offrire principalmente tre “skills”: un’esperienza poliedrica, una creatività differente e una prospettiva unica. “In Italia c’è meno specializzazione. Hai più possibilità di lavorare su più progetti, essere esposto a diverse esperienze che ti arricchiscono come professionista in tempi molto più brevi. Oltre a questo, penso che noi italiani abbiamo una grande creatività che ci consente di avere un’indiscutibile capacità di adattamento. Inoltre abbiamo una prospettiva del mondo unica, tutta nostra, un po’ europea, un po’ latina. E gli americani con cui ho lavorato, l’hanno sempre apprezzata”. Di contro, soprattutto in America, il mondo delle relazioni pubbliche e dei media risulta essere molto più valorizzato, per non parlare della tecnologia: “Lavoro in Silicon Valley. Qui tutti parlano del futuro, di nuove tecnologie, di come cambieranno il mondo. Ogni giorno nasce un nuovo Davide per mettere in crisi il vecchio Golia. E in 10 anni o meno, quello stesso Davide, sarà il nuovo Golia. Vai in riunioni dove ti presentano i nuovi prodotti che in pochi mesi invaderanno le case o gli uffici di milioni di persone. È quest’aria di novità, di avventura, questo costante senso che tutto è effimero e che può cambiare in ogni momento, a cui sei esposto continuamente. Poi c’è l’aspetto della comunicazione. Qui negli USA le relazioni pubbliche sono molto valorizzate, meglio capite che in Italia. Infine, c’è il mondo dei media. Mondo che negli ultimi anni, è stato totalmente sconvolto dalle nuove tecnologie. E non solo, anche i media tradizionali si stanno trasformando velocemente. Qui vedo in anticipo quello che succederà in Italia, magari fra 12-18 mesi. Il livello di complessità e la velocità in cui tutto questo succede è pazzesco”.

Le opportunità della globalizzazione
Globalizzazione sinonimo di opportunità e crescita. E quindi ben venga l’aumento di manager “nostrani” oltre confine. A dirlo è Alberto Grando, direttore della SDA Bocconi e professore ordinario di Economia e gestione delle imprese.
Quali sono, secondo lei, i motivi che guidano un manager italiano verso nuove frontiere?
Fino a pochi anni fa i nostri manager erano molto “domestici”, facevano una carriera in verticale, tra le quattro mura del proprio Paese. Oggi invece, di fronte al colosso della globalizzazione molti decidono di viaggiare verso nuove opportunità. Non solo, molte aziende italiane hanno costruito rapporti con l’estero, creando opportunità per i propri manager. Stiamo colmando un vuoto che ci vedeva, fino a pochi anni fa, tra le retrovie nella corsa alla globalizzazione. I manager del futuro sono i giovani che hanno frequentato programmi di studio all’estero e non vogliono limitarsi ai confini nazionali.
Come giudica questa presenza di massa dei nostri manager all’estero?
La numerosa presenza di italiani all’estero diventa un’opportunità e addirittura una ricchezza solo se l’Italia, di contro, riesce a mantenere alta la capacità attrattiva verso figure professionali straniere. Sono comunque convinto che chi decide di affrontare un’esperienza oltre confine prima o poi decida di rientrare, in linea con una logica per cui la mobilità è diventata molto più fluida e dinamica. Vedrei con ottimismo questo fenomeno, per molti la globalizzazione è un’opportunità di crescita.
Quali sono i Paesi verso cui viaggiano gli italiani?
Se fino a qualche anno fa si andava negli Stati Uniti, oggi le preferenze e gli interessi si sono spostati verso la Cina, India ed Est Europa.
Qual è il valore aggiunto che un manager italiano può portare in un contesto internazionale?
Gli italiani hanno molti punti di forza. Prima di tutto partono da una preparazione generalmente robusta che il nostro sistema universitario è in grado di fornire. C’è inoltre una certa flessibilità innata che consente di superare i momenti difficili, per non parlare della creatività italiana che ci viene riconosciuta in tutto il mondo in diversi settori, dalla moda, al design. Gli italiani inoltre hanno sempre dimostrato una buona capacità di adattamento in contesti che non conoscono.
Quale percorso deve intraprendere un manager per fare carriera?
Un manager che vuole fare carriera deve prima di tutto avere delle competenze di base. Seguono una certa apertura, capacità di uscire dal proprio contesto quotidiano per mettersi in una posizione di apprendimento. È necessario inoltre avere un certo orientamento al risultato: le aziende apprezzano chi ha la capacità di lavorare in gruppo, affrontando situazioni complesse. Inoltre nel tempo deve emergere la capacità di leader. La cosa più importante penso sia la consapevolezza di certi valori etici che devono essere radicati nei comportamenti e atteggiamenti.
Nello scenario mondiale, oggi come oggi, qual è il Paese che può offrire maggiori possibilità di crescita?
Fino a pochi anni fa molti manager all’estero lavoravano nel settore della consulenza e nel settore finanziario. Oggi si sono moltiplicate le opportunità e si sono aperti nuovi canali quali l’operation, la logistica, il Supply Chain Management o le vendite.
Per stimolare imprese e imprenditori a compiere il grande passo, come sta intervenendo il sistema formativo?
Alcune istituzioni che hanno una posizione importante ed eccellente nello scenario mondiale si muovono alla pari degli Stati Uniti, vedi l’esempio della Bocconi: abbiamo il 50% di Master sul mercato internazionale, con il 65% di stranieri provenienti da 50 Paesi diversi. All’esperienza formativa va affiancata una continua interazione con le imprese, utilizzando la tecnologia, il contatto diretto con le aziende, interagendo con la Business Community, in modo da accrescere le competenze non solo tecniche ma soprattutto quelle legate alla leadership, alla capacità di lavorare in gruppo, senza dimenticare mai l’aspetto dell’etica naturalmente.

testi di Laura Di Teodoro

 

La citazione
La conoscenza si acquisisce leggendo i libri: ma quello che è veramente necessario imparare, la conoscenza del mondo, si può acquisire soltanto leggendo gli uomini e studiando tutte le diverse edizioni.
Lord Chesterfield
Link utili
www.promelec.it