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Unione Europea e black list: il solito compromesso

Sono trascorsi oltre due anni di discussioni fino ad arrivare a ieri, dove a Bruxelles i 28 hanno approvato una lista comprendente 17 paradisi fiscali, documento assolutamente controverso e poco credibile, tanto da essere subito tacciato di inidoneità anche dall’Organizzazione non Governativa Oxfam: una confederazione internazionale di organizzazioni no profit che si dedica alla riduzione della povertà globale. Il fulcro è la incongruenza nella scelta dei paesi inclusi nella lista nera tanto che a Bruxelles non si è ancora trovata una posizione comune neppure sulla tassazione delle imprese digitali.  Una vera e propria figuraccia che ha accentuato difficoltà, spesso insormontabili, tanto che i 28 in riunione si sono visti costretti a rinviare il controverso e difficile dossier relativo alla tassazione delle multinazionali digitali definita “web tax” alla Commissione Europea e quindi alla Comunità Internazionale. Punto focale al momento apparentemente insormontabile, su tale posizione, è la definizione del concetto di “ stabilimento virtuale permanente” che ha portato i ministri delle finanze UE a richiedere con sollecitudine un accordo globale. La definizione e quindi il riconoscimento di “paradiso fiscale” si basa su tre criteri, concordati tra tutti i paesi quali: trasparenza fiscale, applicazione delle norme Ocse sui trasferimenti economici dei profitti da un paese all’altro e tassazione equilibrata. Si è trattato di discutere in maniera sofferta, complicata ed anacronistica, il tutto per tentare di trovare “il solito compromesso” che non andasse ad urtare  gli interessi personali di ciascun governo. Come se ciò non bastasse, sono sorte ulteriori suddivisioni anche sulla necessità di adottare sanzioni pecuniarie nazionali contro quelle società europee che risultano avere rapporti diretti con le giurisdizioni individuate come paradisi fiscali. Di riflesso le 17 nazioni inserite in questo elenco hanno promesso (senza determinare il quando) che applicheranno misure più trasparenti. Nel dettaglio vi è una “lista nera” con piccole giurisdizioni come Macao,  isole Marshall, Paesi con cui la UE ha firmato importantissimi accordi commerciali bilaterali come la Corea del Sud, paesi con cui si intrattengono profondi legami politici come la Tunisia, paesi che risultano essere fondamentali  investitori finanziari come Emirati Arabi Uniti e così pure paesi, definiti poveri, come la Mongolia. Una seconda lista detta “grigia” comprende 47 giurisdizioni che hanno promesso, a parole, obblighi di trasparenza tra le quali San Marino, Turchia, Svizzera, le isole Cayman, Jersey o Guernesey. Nel dettaglio  le giurisdizioni della suindicata lista avranno 1 anno per mettersi in regola se trattasi di paesi sviluppati, 2 anni se sono paesi in via di sviluppo: comunque non si tratta certamente di un elenco chiuso ma bensì sempre in movimento. In ultimo ma non per importanza urge specificare che esistono profonde differenze tra la “lista nera “ definita dalla UE e quella indipendente della rete globale Ocse. Il  limite maggiore evidenziabile è quello sulla trasparenza  e sullo scambio automatico di informazioni, perché l’Ocse ha criteri di classificazione di paesi che sono pubblici e misurabili partendo dalle basi legali nazionali per il funzionamento di standard di scambio ed informazioni fiscali. Infatti, come spiega l’ultimo rapporto Ocse, tra l’essere “compliant” nella legislazione e attivare gli scambi con le altre giurisdizioni il passo è lungo.
Testo di Fabio Accinelli