Editoriale di Mauro Milesi – B&G numero 09 – Novembre – Dicembre 2009

Si sta per chiudere l’anno nero, nerissimo, dell’economia mondiale. Appena 12 mesi fa stavamo entrando nel tunnel profondo e buio della crisi e i messaggi che sopraggiungevano ci dipingevano un orizzonte tempestoso. Così è stato. La crisi – prima finanziaria, poi dell’economia reale – è arrivata con tutta la sua forza sul finire del 2008 e ci ha portato in guerra. Un conflitto evoluto e globalizzato, che ci siamo trovati a combattere non con le armi e i soldati, ma con i complessi meccanismi della finanza, con la forza delle nostre imprese, con la resistenza delle famiglie.
Non ci siamo trovati a contare morti e feriti, case e ponti danneggiati, ma a cadere è stato il nostro tessuto economico e i valori fasulli della rincorsa al benessere a rate, comprato con la carta di credito a scalare. Se pensiamo alle conseguenze, se ci soffermiamo sui danni travolgenti che questa crisi ha portato, potremmo con qualche azzardo e con le debite distanze paragonarla davvero a un conflitto mondiale. In tutto il mondo, infatti, migliaia di imprese sono crollate sotto i colpi della recessione, lo spettro della disoccupazione ha dilagato da Oriente a Occidente, con le famiglie schiacciate dai debiti e senza lavoro costrette a cedere case ed averi. Una sorta di “new generation war” che si è combattuta nelle sedi delle Borse, dove quello che valeva 100 in poco tempo è diventato 2, forse 3. Colossi bancari seppelliti da questo Tsunami finanziario che ha travolto con essi i piccoli risparmiatori al pari dei grandi speculatori. Senza differenza, con la stessa medesima crudeltà.
Così abbiamo combattuto. Nel cuore delle nostre imprese, nel cerchio privato delle nostre case. Ci siamo difesi, come abbiamo potuto, senza troppi aiuti, ma sommersi di tante belle promesse. Più volte è emerso il dibattito se l’Italia abbia davvero affrontato meglio la crisi delle altri grandi economie del mondo. Lascio questa analisi agli esperti di economia (quelli che avrebbero potuto prevedere la crisi), ma credo che in qualche modo il nostro Paese è stato in grado di attutire il colpo. Perché abbiamo una finanza meno complessa che altrove, perché abbiamo un tessuto straordinario di piccole e medie imprese, perché abbiamo una forte vocazione al risparmio famigliare e perché conosciamo l’arte di arrangiarci. Non abbiamo, come altrove, atteso l’intervento dello Stato e il sostegno delle banche. Un lusso che altri Paesi conoscono ma al quale noi non siamo abituati. Per questo ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cercato di affrontare al meglio questa crisi. Le famiglie hanno dovuto attingere ai risparmi messi faticosamente da parte nel corso di anni, le imprese hanno lottato e difeso il proprio spazio vitale. Molti non ce l’hanno fatta. Così dopo un anno, numerose aziende, anche eccellenti, non ci sono più e altre agonizzano in attesa di una boccata d’ossigeno. Però in molti sono arrivati sani e salvi fino a qui e possono guardare sempre più da vicino questo 2010 ormai alle porte, l’anno che potrebbe rappresentare la tanto attesa inversione di tendenza. Dopo un lungo periodo di lotta, la fine del conflitto appare vicina. E siamo ancora in piedi, forse più forti di prima.