Editoriale di Mauro Milesi – B&G numero 18 – Giugno – Agosto 2011
I lacci del “socio occulto”
Tutte le imprese italiane sono state impegnate in questi ultimi tempi con la stesura definitiva del proprio bilancio d’esercizio. E come ogni anno ci siamo tutti ricordati del nostro “socio occulto” di maggioranza. Lo Stato preleva dalle tasche delle aziende ben il 68,6% dei profitti. E’ il verdetto di un recentissimo studio realizzato dalla Banca Mondiale, in cui risulta che l’Italia ha lo “straordinario primato” in classifica del Paese più tartassato d’Europa.
Il dato del prelievo fiscale riguarda il complesso delle tasse nazionali, locali e dei contributi sociali ed è superiore a tutti i nostri competitor europei come la Francia (65,8%), la Spagna (56,5%) e la Germania (48,2%).
Se si pensa che la media europea si attesta al 44,2% e quella mondiale al 47,8%, ben si comprende come l’Italia navighi con un pesante fardello nelle già difficili e agitate acque della crisi.
Per capire meglio l’incidenza della pressione fiscale è interessante osservare quanto tempo serve a un’azienda (e quanto impegno) per capire quante tasse deve pagare. Servono ben 285 ore in media a un imprenditore per riuscire a calcolare, gestire e provvedere al pagamento di tutti i tributi: code, telefonate e arrabbiature comprese. Praticamente è come se per 40 giorni all’anno i titolari di un’attività fossero totalmente in balia della burocrazia, di bolli e scartoffie. I nostri concorrenti tedeschi ci mettono 10 giorni di meno, gli inglesi sono impegnati solo 15 giorni all’anno.
Questo è un dato significativo al di là della pura incidenza economica della tassazione, perché lo Stato non chiede soltanto alle imprese gran parte dei loro utili, ma chiede anche tempo, come fosse un socio operativo che non riesce a fare qualcosa e chiede all’altro di occuparsene. Ovviamente nelle società strutturate questa incidenza è relativa, ma nell’universo delle Pmi, cuore pulsante della nostra economia, una simile richiesta appesantisce e affatica ulteriormente la mole di lavoro. Ovviamente non c’è l’intenzione di cadere nel qualunquismo, è ovvio che le tasse sono un argomento dolente e che ogni cittadino vorrebbe farne a meno.
Ma la questione è oggettivamente problematica da tanti punti di vista. C’è il tragico confronto tra i servizi corrisposti dallo Stato rispetto a quello che chiede in cambio; c’è l’amaro paragone tra le responsabilità di un imprenditore rispetto allo standard e ai privilegi di una classe politica che non sembra per nulla al passo con i problemi del Paese, ma in altre faccende affaccendata. E c’è anche, altro paradosso, il disinteresse del legislatore nell’adeguare la normativa fiscale rispetto all’evoluzione della vita delle imprese. Un esempio? Provate a considerare gli ammortamenti di un pc. Oggi un’azienda che acquista un computer ha la possibilità di ammortizzarne il costo in 5 anni. La normativa a riguardo è del 1988 e forse in quel periodo la vita media delle attrezzature informatiche era coerente con gli ammortamenti previsti.
Ma oggi in quale azienda un computer dura 5 anni? La tecnologia viaggia a un passo completamente diverso. Un mese dopo che compriamo un computer è di fatto già “vecchio” e se si vuole restare competitivi, oltre che in linea con il resto del mondo, ci si rende rapidamente conto che la vita di un pc non supera oggi i 2-3 anni. Quindi una società che vuole restare al passo deve adeguarsi ad aggiornare il suo parco informatico in tempi più rapidi, ma la norma fissa ancora gli ammortamenti a 60 mesi. Insomma, potremmo dire che il nostro “socio” ci appare non soltanto sempre più esoso, ma anche spesso disinteressato a favorire la nostra competitività.